Carciofo bianco di Taranto, una varietà rara e un prodotto agroalimentare tradizionale

Piace a tutti e questo è il periodo migliore per poterlo mangiare stiamo parlando del carciofo, in particolare del: Carciofo bianco tarantino (Cynara cardunculus L. subsp. Scolymus (L.) Hayek) è una antica varietà di carciofo coltivata sporadicamente, anche in passato, negli orti della provincia di Taranto. Le piante sono di altezza media (circa 95 cm con il capolino principale), presentano diametro medio di circa 120 cm e attitudine pollonifera media. Le foglie sono di colore verde grigiastro, lunghe in media di 75 cm, con portamento semieretto. Il capolino principale è di forma ampio/ellittica-ovata e presenta compattezza medio-scarsa. Le brattee esterne sono di colore interamente verde e presentano un apice rientrante con spina piccola. Le brattee interne sono di colore bianco-verdastro e presentano densità scarsa. Il carciofo bianco di Taranto dal 2023 è rientrato nell’elenco dei Pat, i prodotti agroalimentari tradizionali.

In Puglia contiamo dodici varietà di carciofi differenti: Bianco di Ostuni, Bianco di Taranto, Brindisino, Centofoglie di Rutigliano, Carciofo di Lucera, Francesina, Locale di Mola, Nero del Salento, Nero di Ostuni, Tricasino spinoso, Verde di Putignano e Violetto di Putignano, varietà locali, che attraverso il progetto BiodiverSO sono state recuperate, caratterizzate e conservate.

La caratteristica della pianta è quella di essere produttiva per più di tre anni, l’acido clorogenico e la cinarina rappresentano gli antiossidanti maggiormente presenti, benché in quantità inferiore rispetto ad altre varietà locali pugliesi analizzate. Questa varietà è ormai poco presente nella zona del tarantino. Proprio grazie al progetto BiodiverSO questa varietà è stata risanata da funghi e virus mediante micropropagazione e termoterapia.

L’impianto viene effettuato generalmente con carducci in diversi periodi dell’anno con piante disposte a 100-120 cm tra le file e 80 cm sulla fila. I capolini vengono tagliati a mano con parte dello stelo (20-35 cm) accompagnato da due o tre foglie. La pianta produce 5-6 capolini, e può essere produttiva per più di tre anni. Generalmente la raccolta di tale varietà avviene da marzo a maggio; dal mese di aprile fino a tutto maggio si possono ottenere 3-4 capolini più piccoli che vengono raccolti senza stelo e destinati all’industria di trasformazione.

In precedenza, Felice D’Introno la indica tra le varietà pugliesi nel libro “Le composite superlative” (1967), un volume dedicato alla produzione del carciofo, del cardo e dell’insalata. In particolare si fa riferimento a dati di coltivazione del carciofo nel decennio 1955-1966; il testo riporta studi sull’ortaggio condotti dall’Università di Sassari e dall’Università di Bari con il patrocinio del Consiglio Nazionale delle Ricerche, su tecniche e metodi di coltivazione, impianto e moltiplicazione della carciofaia, concimazione e miglioramento genetico. Di particolare interesse è la sezione del libro dedicata alla produzione di carciofo in Puglia: tale coltura, difatti, in quel periodo ha avuto un esito inizialmente insperato, grazie alla facilità di collocamento del prodotto sui mercati del nord Italia a prezzi remunerativi. Il testo riporta che la coltura fu dapprima introdotta nei terreni asciutti in agro di Bisceglie e che successivamente si diffuse negli agri di Mola di Bari, Mesagne, Brindisi e Gallipoli.

Dal 1950 il carciofo ha fatto il suo trionfale ingresso in Capitanata (San Ferdinando di Puglia, Trinitapoli, Margherita di Savoia, Cerignola e Manfredonia), rivoluzionando il vecchio sistema di agricoltura cerealicolo-estensiva. La varietà più diffusa era di tipo “Catanese” (Niscemese), benché avesse subito variazioni morfologiche.

Infine, si riporta che la produzione barese di carciofo (e in parte anche quella brindisina e tarantina) sia incrementata notevolmente nel 1950, soprattutto con l’arrivo dell’acqua irrigua, indispensabile per coltivazione forzata dell’ortaggio.

 

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