U lattaminû, la bevanda a base di mandorle divisa tra credenze popolari e tradizione

C’è qualcosa di magico nel Natale. E non lo dice solo la pubblicità. Ci sono riti per la preparazione di alcune pietanze che danzano sul confine tra scaramanzia e credenze popolari. E allora quelle signore che il 13 dicembre (non un giorno di più, non un giorno di meno: bisogna cominciare il giorno di Santa Lucia, sotto lo sguardo della protettrice degli occhi) si mettono all’opera per preparare una bevanda che è anche una pietanza, chi sono? Credulone senza scampo? Figlie di un tempo che non esiste più?

A ben vedere, il sospetto emerge se si esamina il procedimento per realizzare il latte di mandorle alla capursese. U lattaminû (laddove il segno diacritico sulla ‘u’ sta ad indicare una particolare pronuncia impossibile da traslitterare).

Colei (o colui) che prepara il latte di mandorla (a proposito, l’Unione europea ha vietato l’utilizzo della parola “latte” per liquidi non derivati da animali) non deve indossare abiti neri.

Il 13, dunque, occorre mettere a bagno le mandorle. In acqua fredda, si raccomanda. E le mandorle debbono essere fresche, altrimenti emetterebbero sostanze oleose. Bisogna cambiare acqua tutti i giorni, per nove giorni. Fino al 22. Attenzione, il recipiente dev’essere tenuto lontano da fonti di odori.

Il 22 si torna all’opera. Le mandorle si pelano. E poi si rimettono a bagno nuovamente. Stavolta basta un giorno, sennò il frutto ingiallisce.

Il 23 – antivigilia di Natale – è il giorno fatidico. Si comincia a lavorare all’alba. Magia? No: solo convenienza. Occorre star soli. Se entra qualcuno mentre si sta lavorando, il prodotto assumerà il colore dell’abito del “disturbatore”. (In realtà la motivazione è alquanto più prosaica: è fondamentale non farsi distrarre da intrusi).

A proposito. Chi è in cucina, chi è preposto alla preparazione del lattaminû non deve avere il ciclo mestruale e non deve essere in lutto stretto. Altrimenti, meglio preparare un buon succo d’arancia.

Un tempo, le mandorle, fatte asciugare, erano frantumate su una pietra levigata. Qualcuno più all’avanguardia utilizzava il tritacarne a manovella.  Di tempo ce n’era anni fa. Oggi pare si esaurisca presto. E allora meglio usare un frullatore per ridurre in polvere i frutti del prunus dulcis.

A questo punto la polvere va immersa in una pentola. L’acqua dev’essere tiepida e la polvere deve trasformarsi in poltiglia. Ora ci vuole un panno. Dev’essere di lino immacolato. La poltiglia va fatta filtrare: operazione da ripetere due volte. Siamo alle fasi cruciali. Non si può sbagliare. Anche perché finora si è parlato della bevanda di mandorle tipica della Sicilia, l’isola di Avola…

Il liquido ora va fatto bollire in un tegame rigorosamente di coccio (la magia: in realtà si ottengono ottimi risultati anche con pentole metalliche). Due ore, ma anche due ore e mezza.

Un passo indietro. Quel che resta nel canovaccio di lino è “u padditt”. E della serie “non si butta niente”, questa residuale pasta di mandorle (okara) è utilizzata per farcire i calzoncelli. Che saranno buoni anche con questa farcia, come dire, impoverita.

Intanto, controllato a vista, il liquido si gonfia, modifica la propria consistenza. Va aggiunto zucchero e sale grosso, che va calato chiuso in un sacchetto, quasi a mo’ di infusione, legato da un filo resistente a una delle maniglie della pentola. Nell’ultima mezz’ora s’aggiunge un po’ di riso. Secondo la leggenda, perché ricorda Gesù bambino. Chissà perché.

È il tempo della cannella e del limone. Ed ecco che il lattaminû è pronto da bere. La mattina della Vigilia o, meglio ancora, la mattina di Natale: fresco, denso, consistente. Magari mentre si scartano i regali. Per ritrovarne la magia.

Foto Credits: Cottonbro-studio

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