Angelantonio Tafuno, la riscossa della Murgia parte dal formaggio politico

Angelantonio Tafuno ha 29 anni, eppure è come se ne avesse mille. Non perché li dimostri tra pelle e capelli, ma perché dalle sue parole traspare un sapere millenario, consapevole non solo dei tratti salienti della sua terra, ma anche delle storie che si sono intrecciate sulle colline murgiane e i suoi jazzi. Questo ragazzo dallo sguardo caldo e la capigliatura indomabile è la quarta generazione alla guida dello storico Caseificio Stella Dicecca di Altamura. La sua giornata inizia prestissimo perché lui, senza passare a far visita agli animali negli allevamenti da cui prende il latte, non ci sa stare. Poi va in laboratorio, dove lavora, sperimenta, doma la tecnica del siero innesto e crea capolavori come il Pallone di Gravina, che nel 2021 gli è valso il Gold al World Cheese Awards di Oviedo, in Spagna. Come se non bastasse, è Presidente Confartigianato Categoria Casari ed è anche tra i membri della comunità Slow Food Gente del Parco nazionale dell’alta Murgia per la sostenibilità. Se abbiamo dimenticato qualcosa, è solo perché Angelantonio è una persona in continuo movimento e divenire, mosso da un solo obiettivo: avvicinare la gente al cibo buono, pulito, giusto e sano, dando dignità a chi, lavorando con il latte, custodisce saperi e territori unici.

Angelantonio Tafuno, quando hai iniziato? Cosa ti ha spinto a continuare la storia di famiglia?

Sono cresciuto in laboratorio e le mani nel latte le ho sempre avute. Ma la vocazione l’ho percepita durante i miei anni all’estero. Mentre ero in Arabia Saudita come consulente per l’avviamento di un caseificio, ho sentito distintamente la nostalgia per la mia terra. Sono cresciuto in campagna. Io devo andare in masseria tutti i giorni. In più, solo lì ho compreso il grande valore della libertà di cui possiamo godere in Italia.

Così sei tornato a casa, in Puglia, e hai iniziato a lavorare nel caseificio che tuo nonno ha aperto ad Altamura nei primi del Novecento, per non buttare il latte d’estate. Ma gli hai dato una tua impronta…

Sì. L’incontro che mi ha cambiato di più è stato quello con l’affinatore Laurent Mons. Dopo aver visto il suo negozio, a Lione, in cui sono esposti oltre 80 tipi di formaggi e potevi fare un percorso di degustazione, ho capito come volevo impostare la nostra azienda. È come quando si va in un negozio di abbigliamento: prima di acquistare un capo, si provano varie cose. Così non accade con il cibo. Il mio obiettivo in tutto ciò che faccio è avvicinare la gente al cibo buono, pulito, giusto e sano, seguendo i valori di Slow Food.

Hai scelto di rimanere ad Altamura, ma avresti potuto scegliere di applicare la tua filosofia ovunque…

Non tutti sanno che nel 1859, l’Enciclopedia Agraria definiva Altamura come territorio di vocazione alla pastorizia e produzione di formaggi. Oggi sulla Murgia non c’è più alcun allevamento. Chi lavorava con gli animali ha dovuto competere con impianti intensivi, contro cui risultavano per forza di cose perdenti. Sfruttati e avviliti, hanno cessato l’attività e i loro figli sono andati via, scoraggiati da un futuro incerto. La mia attività ha un obiettivo importante: dare dignità al lavoratore e alla filiera, mettendoli in condizione di produrre e di restare.

Come lo fai?

Intanto, in qualità di Presidente Confartigianato Categoria Casari, ho lavorato ad appelli a livello regionale che possano incoraggiare un ricambio generazionale. La Pac parla di agricoltura e allevamenti di grandi dimensioni, ma il nostro territorio è vocato a un certo tipo di pascolo, in cui le vacche ad alto rendimento stentano. Sulla Murgia dovrebbero essere allevati ovini, bovini, ma in piccoli numeri, per poter permettere alle mandrie di nutrirsi al pascolo. Tra l’altro, in pochi sanno che questo tipo di alimentazione risolverebbe anche il problema degli incendi: se gli animali brucano l’erba, non c’è niente a cui appiccare il fuoco, no? La pecora altamurana è scomparsa, sostituita da razze più produttive, il cui latte però è standardizzato. Una commodity, bianco, ma mai uguale a sé stesso. Basterebbe riflettere su questi temi per capire che, per dare dignità economica a questo lavoro, bisogna lavorare per valorizzare il nostro patrimonio agroalimentare.

Il formaggio può diventare dunque uno strumento politico?

Sì. Il mio Pallone di Gravina lo vendo al mio prezzo perché è un prodotto unico. Il latte con cui è fatto lo pago 0,65 cent al litro (il prezzo medio nazionale di 0,38 cent, ndr.) perché ha un’identità. Di conseguenza, queste caratteristiche si trasferiscono e impreziosiscono anche il mio formaggio.

Cosa ti piace di più dell’andare in stalla a controllare gli animali al mattino?

I modelli di allevamento che sposano il mio concetto ideologico mi gratificano. Vedere i vitelli che crescono e capire che, quando prendi il latte dall’animale, acquisti una materia prima buona, pulita e giusta, dà dignità a tutto il lavoro e alla filiera, pagando il giusto prezzo.

Se dovessi definire un obiettivo legato agli allevamenti, quale vorresti raggiungere?

Riportare gli ovini sulla Murgia. Abbiamo Dop come il Canestrato Pugliese, che si stanno perdendo.  Non possiamo permettercelo.

Qual è la soddisfazione più grande che ti ha dato il tuo lavoro?

Il Gold per il mio Pallone di Gravina al World Cheese Awards. Andare in un campionato mondiale con un formaggio a latte crudo e sbaragliare 4 mila concorrenti è stata la conferma di un percorso iniziato molti anni fa. Avevo la conoscenza e la tradizione necessarie che, unite allo studio sul campo e ai continui corsi di formazione fatti ovunque, anche in malga, mi hanno portato a raggiungere quel risultato. Ma non mi sento mai arrivato. Piuttosto mi considero un ossessionato, un alunno a vita. Il latte è una materia viva e, per domarlo, devi sempre guardare a quelli più bravi di te.

L’ultima novità nel tuo percorso è l’apertura del Muhbar. Il caseificio ti stava stretto?

No, anzi: ne è l’upgrade! In questo locale di interesse storico, ho un caveau per l’affinamento dei miei formaggi e un’area degustazione in cui non servirò solo i miei prodotti, ma una selezione delle migliori espressioni dei territori che ho visitato. Si potranno degustare e acquistare, tra gli altri, Stilton, Camembert, la Robiola di Roccaverano e il Gorgonzola di Sandro Gallina. È un posto pensato anche per i giovani, che non vanno a fare la spesa e potrebbero trovare qui un modo per appassionarsi a qualcosa che forse non comprendono.

Secondo te perché si è perso questo legame col formaggio?

C’è un approccio sbagliato all’alimento. Poi si è perso il legame con il territorio e, con esso, anche con le storie che un formaggio può portare in un piatto.

Secondo te dove va il futuro della Puglia casearia o dove dovrebbe andare?

Per me la chiave del futuro è guardare tutto attraverso la lente dell’agroecologia. Basti pensare alla carne sintetica. Sì, buona, ma dov’è l’identità di quel prodotto? Meglio mangiarne meno, ma di qualità. Stesso discorso per i formaggi. Mangiarli e dedicargli la giusta attenzione è sia un atto gustativo edonistico sia un atto agricolo: mantieni viva un’economia locale, circolare e pulita. Forse fare impresa in maniera etica resta l’obiettivo più grande. Ma vorrei che non fosse solo mio, ma di tutti noi.

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