U frasciòne, l’agnello mai nato di zia Rosa

Un po’ di anni fa, parlando di cucina con un’anziana signora di Gravina in Puglia, venni a conoscenza di un’antica ricetta ormai in disuso: U frasciòne.

Era un piatto che rappresentava la più estrema espressione del recupero, del riciclo, in quanto si trattava di cucinare l’agnello che non ce l’aveva fatta a superare il parto. In campagna così funzionava. Ognuno aveva un compito ben preciso e Rosa – questo il nome dell’anziana signora – si occupava di cucinare per tutti coloro che passavano la giornata nei campi.

Ho avuto il privilegio di conoscerla personalmente e di chiacchierare con lei tante volte di quella che era la cucina di casa in quei periodi in cui l’agricoltura era alla base del lavoro di molte famiglie, sia in quanto proprietari terrieri, come nel suo caso, sia come operai dei campi.

Rosa cucinava per tutti tante prelibatezze. Oltre alle tipiche bontà pugliesi che un po’ tutti conosciamo, come le orecchiette con le cime di rapa o con il ragù, le fave con le cicorielle selvatiche, i cavatelli a otto dita con la ricotta ascquande (piccante), la parmigiana, i piatti di legumi a base di fagioli, ceci o cicerchie, Rosa era bravissima anche nella preparazione delle pietanze tipiche gravinesi.

Nella sua antica cucina a legna cuoceva succulente tielle di agnello con funghi cardoncelli e lampascioni, lo sformato di “fenecchìiidde”, la salsiccia di pecora, la pecora alla “rezzaule”, le brasciole di trippa, “u callaridde” e le uova con l’annùgghie o con la pezzentédde, tipici salumi locali fatti dai ritagli della carne meno pregiata.

La sua specialità era un’incredibile lasagna a nove strati di sfoglia rigorosamente tirata a matterello, sottilissima. Lei la besciamella non sapeva neppure cosa fosse, ma quella lasagna era buonissima, intrisa di ottimo ragù, pecorino e tantissima mozzarella. Io ho avuto il sommo piacere di mangiare molti dei suoi piatti, perché Rosa si trasferì in appartamento a Bari con sua sorella, il marito della sorella e i due figli, e così diventammo tanto amici da passare insieme interi pomeriggi per farmi raccontare le sue ricette e la cucina tipica gravinese. La lasagna, credetemi, era un’esperienza imperdibile. Quelle sfoglie di semola erano così sottili che in bocca si scioglievano e non potevi evitare di fare almeno il bis.

Rosa era molto brava anche nella preparazione delle focacce e dello sformato di “fenecchìidde”, altro piatto che mi piaceva tantissimo, quasi impossibile da trovare oggigiorno – purtroppo –  nei ristoranti di Gravina in Puglia. Si tratta di finocchi selvatici lessati e mescolati con uova, scamorza, pecorino e agnello disossato, distesi in una larga teglia e poi gratinati in forno.

Uno di quei piatti unici e sostanziosi che zia Rosa – così la chiamavo io – preparava in campagna per i suoi commensali dopo una dura giornata di lavoro nei campi, con il caminetto acceso, dove aveva messo anche in cottura i ceci o i fagioli nel “pignatìdde de creite” (l’anforetta di terracotta). Nel pignatìdde preparava anche i lampascioni origanati, altra bontà cucinata insieme alle cipolle porraie, i cosiddetti sponsali.

Ma il mio stupore fu enorme quando mi raccontò dell’agnello che, morto durante il parto, veniva utilizzato in cucina. Questa usanza può apparire strana, quasi selvaggia ma, pensandoci bene, era un atto d’amore, un voler dare dignità ad un animale che non aveva avuto il tempo di contribuire all’economia della famiglia.

L’agnello, tagliato in piccoli pezzi, veniva rosolato nella “sartàschene”, la padella nera di ferro che, all’epoca non poteva mancare in ogni casa, e che non doveva mai essere lavata per evitare di farla arrugginire. con il solo condimento di genuino olio extra vergine di oliva, aglio, peperoncino, pecorino e prezzemolo fresco.

Questa pietanza, che a sua volta le era stata insegnata dalla mamma e dalla nonna, veniva accompagnata da abbondante pane, preparato ogni settimana rigorosamente con il “crescente”, e da un bicchiere o anche due di corposo vino primitivo. Al centro del tavolo si metteva il piatto mezzano con il suo tenero e saporito contenuto e tutti prendevano la loro porzione intingendo quel pane nel goloso sughetto. A seguire un frutto di stagione e poi si andava a letto, aspettando l’alba di una nuova giornata di duro lavoro nei campi.

Foto Credits: Antonio Donadio

 

 

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