Paolo Lopriore, la sua “pugliosità” è la dedizione verso il cibo

Allievo prediletto di Gualtiero Marchesi, Paolo Lopriore è sempre stato un profeta: prima con la sua cucina d’avanguardia, organoletticamente e concettualmente avanzatissima, senza la quale la nuova scuola italiana sarebbe inimmaginabile; poi nella svolta a U verso Appiano Gentile, il cui Portico significa convivialità, democraticità, servizio, amore sconfinato per la cucina e il cucinare quotidiano. Non tutti sanno, tuttavia, che questo protagonista di lunga data della cucina italiana non è esente da “pugliosità”, tratto che potrebbe spiegare diverse caratteristiche del suo stile inconfondibile.

“Se la Puglia mi ha influenzato? Sicuramente sì. Mamma Rosa, che mi dà ancora una mano al Portico, è campana, ma in casa ha sempre cucinato pugliese, perché mio papà Giuseppe è originario di Conversano. Qui a Como faceva il netturbino, mia mamma la casalinga e la collaboratrice domestica. Aveva capito che solo cucinando i suoi piatti, poteva farlo felice, sennò avrebbe sempre avuto da ridire. Quindi aveva imparato dalla zia di papà a fare le orecchiette e dalla cognata altri piatti, le parmigiane, le paste al forno bruciacchiate, la grandezza delle polpette, piccole come la falange del mignolo… Alla fine i pugliesi hanno solo un difetto: un gusto tutto loro. Abitano una terra completa, che ha tanti ortaggi, il pesce, che però è arrivato dopo, le grandi carni, le interiora di agnello, il cavallo, l’olio… Quindi non sono curiosi. Ricordo che mio zio la pasta in bianco non l’amava, la chiamava ‘la pasta dei cornuti’, perché voleva dire che la moglie era uscita. Il concetto della pugliosità per me è questo: la dedizione verso il cibo. Anche perché dopo mangiato si va a dormire, è quasi un togliersi il pensiero. Bisogna coccolare e nutrire, c’è tutta una pigrizia verso il cibo”.

“Poi ho tanti ricordi. Quando andavamo al mare i polpi sbattuti sugli scogli, smembrati e mangiati crudi; i ricci di mare e le cozze aperti e mangiati crudi sulla spiaggia con la focaccia, buonissima. Non andavamo con il cibo portato da casa, ma mangiavamo quello che trovavamo, espresso. Una questione di gusto. E ancora l’odore acre del pecorino gocciolante nelle case calde, la ricotta forte, il gusto metallico delle cozze pelose… I pugliesi nutrono la convinzione che il loro cibo è il loro cibo. Punto. Ed è una cultura che mi ha influenzato molto nel gusto. Perché il sapore di pomodoro ognuno di noi lo connette ai pomodori che ha mangiato, che sono tutti diversi, anche se sono sempre rossi. È il timbro, la linea gustativa, che in cucina non si impara a scuola, ma nelle case. Nel momento in cui al Canto ho cercato di trovare una mia linea di cucina, ho ritrovato questa linea gustativa dentro il mio palato”.

“È una terra che davanti alla tavola dà tanto e dove si mangia anche tanto. Può sembrare una cucina molto semplice, ma custodisce grande sapienza e richiede tante ore di cottura. Quando faceva i fagioli, mia zia li metteva nel pignatiello di fianco al camino e li lasciava cuocere pian piano fino al mattino. Poi secondo me le Puglie sono tre: il nord, il centro, che è più dolce, e il sud, ricco e speziato, con il peperoncino e i concentrati. La regione è lunga e stretta, con un cambiamento importante da Foggia fino a Brindisi. Sono quasi tre fasce climatiche del gusto, lungo le quali la cucina cambia completamente. L’amaro resta sempre presente, perché è il gusto delle erbe spontanee e dei lampascioni. Ero piccolo, ma sono stato svezzato con questi gusti difficili”.

“Al Portico ogni tanto facciamo le orecchiette e i cavatelli, io e i ragazzi, talvolta insieme a mamma Rosa. Oppure la crema di fave con le cime di rapa, ma sporadicamente perché il contesto è diverso, fa esotico ma una tantum va bene. Qui la gente ama i suoi gusti, che sono più dolci, anche la polenta d’estate. Con le cime di rapa però mi piace usare il missoltino, al posto delle acciughe. Per aperitivo lo spumante dell’Archetipo da uva maresco, che trabocca di frutta, è appena fatto ma ha la complessità della terra calda e rossa. E uso solo extravergine pugliese, un olio che accompagna, migliore in cottura che a crudo. Il vecchio giro del resto non lo pratico più, il clima non lo richiede”.

“Con il signor Marchesi non ci siamo mai confrontati in materia: quando sono arrivato all’Albereta, lui aveva già fatto un lavoro importante sulla cucina regionale e un piatto seminale come le orecchiette con cime di rapa e foie gras. A volte mi capita di parlarne con Antonio Zaccardi, che è tornato in Puglia, dove io manco da tanto. Ma nella vita bisogna trovare un posto dove andare a morire e mi piacerebbe che il mio fosse lì. Vorrei trascorrere in Puglia i miei ultimi anni, per la spavalderia, la gente che sciabatta, le discussioni animate nelle cooperative dove si va a bere il vino. Dopo una vita fatta di cinque minuti al passe, un tempo dilatato, con obblighi meno esigenti. Poi c’è il mare e finalmente non sbaglierebbero il mio nome”.

CREMA DI FAVE BIANCHE, CICORIA AMARA E OSTRICHE

“Questo è un piatto che abbiamo messo subito in carta al Canto. Non era facile servire una crema di legumi, dopo la passatina di Pierangelini. Ma un po’ la ricorda. Sfogliando il libro delle cucine regionali di Marchesi, avevo visto che la Puglia era rappresentata dalle ostriche abbinate al cavolo viola e io ne andavo fiero. Quindi le ho aggiunte. Ancora oggi la crema del Portico viene preparata nello stesso modo: lavo le fave, senza ammollo, le faccio bollire senza soffritto con un filo d’olio e frullo, semplicemente. Le servo a pranzo con la cicoria ripassata e una fettunta alla toscana; ma a cena a volte infilo anche un’ostrica”.

INGREDIENTI PER 4 PERSONE

200 g di fave bianche
12 ostriche
1 mazzo di cicoria amara

1 spicchio di aglio

Olio extravergine di oliva

Sale e pepe di mulinello

 

PREPARAZIONE

Mettere le fave in una pentola capace, coprirle di acqua leggermente salata per il doppio del loro volume e farle bollire fino a cottura, schiumando le impurità che affioreranno in superficie. A questo punto scolare e frullare, aggiungendo acqua di cottura fino a ottenere una crema fine e omogenea. Servendosi di un trinciante da cucina, ricavare una julienne dalla cicoria e farla appassire in una pentola con un filo d’olio e uno spicchio d’aglio. Aprire le ostriche cercando di salvaguardare la loro forma. Stendere nei piatti un velo di crema di fave, adagiare sopra le ostriche e condire con l’olio profumato alla cicoria.

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