Dalla enunciazione delle nozioni generali sulla scapèce in generale, e su quella gallipolina in particolare, esposta nella puntata precedente (https://pugliosita.it/2025/09/01/scapece-gallipolina-storia-e-ricetta-di-un-piatto-dalle-antiche-origini/), veniamo alla seconda parte che sarà dedicata completamente al pesce per la scapèce salentina. Sia nella versione gallipolina che in quella dell’area Castro-Tricase che si suole appellare come idruntina anche se Otranto non c’entra nulla e ancora meno l’Idro (che io sappia).
Nelle sagre e nelle feste patronali si ritrovano, in generale, due mastelle (calette): una con i pesci piccoli e l’altra con pesci più grossi. I pesci piccoli, più economici, di norma sono latterini (Atherina boyeri) o argentini (Argentina sphyraena o, più spesso, Glossanodon leioglossus). Date le dimensioni non sfuggirà che il pesce deve essere assolutamente integro e vivo poiché non potrà certo essere eviscerato e/o privato della testa. Diverso è il discorso per le mastelle con i pesci di maggiore dimensione, la gran parte è fatta di zerri o “pupiddhri”. Ora in tanti, troppi, si esercitano in disquisizioni tra “masculari” e “fimmineddhre” cercando esercizi di percezione gustolfattiva da veri gourmet. Se si tratta di zerri (Spicara smaris) sarà assai difficile che possiate incontrare un maschio nella caletta.
La Spicara smaris è uno di quei pesci caratterizzato da ermafroditismo proterogino. Tutti i pesci nascono femmine, superata una certa dimensione diventano maschi. Per lo zerro possiamo dare due certezze: sotto i 13 cm di lunghezza sono tutte femmine, sopra i 15 cm sono tutti maschi. Non è difficile capire se l’oggetto della degustazione sia “mascularu” o “fimmineddhra”. Anche la mennola (Spicara moenia), che potrebbe capitare nel pescato, ha la medesima caratterizzazione biologica, così come la vopa (o boga).
Diciamo che il pesce più adatto alla scapece è quello sopradescritto della taglia all’incirca dei dieci cm. E, dunque, femmine d’ogni specie. Se ci si vuole esercitare nella scapeciatura d’autore si prestano molto bene: la razza e, soprattutto, la coda di “tremula” (torpedine) per chi ha la pazienza di pulirla per bene. Altre proposte che si sentono in giro (alici, sarde, ecc. ecc) sono ipotesi non contemplate nella scapece gallipolina.
Le differenziazioni tra paese e paese? Dalla frittura, al pane, all’aceto e alla “maturazione”. Perché la scapece gallipolina usa indelebilmente l’aceto bianco che è più “morbido” del suo genitore. E deve avere il tempo di agire sull’interno del pesce, in particolare sulle parti dure che, a contatto con la marinatura, gelatinificano perdendo la parte calcarea e serbando esclusivamente il connettivo. E le differenziazioni c’erano, in molti comuni dell’area jonica meridionale vi era la “via degli scapiciari” a segnare una sorta di corporazione di una certa importanza.
La preferenza assoluta va agli sparidi (pesci per la scapece) pescati con le nasse poiché essi sono in mare senza mangiare per una dozzina di ore e dunque hanno il tempo di “purificarsi” autonomamente assai più di quelli pescati con le reti che, generalmente, muoiono prima di essere tirati a bordo. Ci sia concesso lo spazio per dir qualcosa sulla scapece salentina non gallipolina, sulla scapece dell’Adriatico che va a terminare ove si incontra con lo Ionio: i pesci sono uguali, e lo è anche il pane e la frittura, ma la concia è completamente diversa: aceto rosso forte, aglio e menta. E non si fa per le feste patronali ma per Natale conciandola i giorni dell’Immacolata. Un pochino il Capitone dei poveri! Che quello dei ricchi era invocato, fin dal XIII-esimo secolo, dal Puer Apuliae (Federico II di Svevia) come tesoro proveniente dal Lago di Rèsina (è scritto proprio così!).
Sperando di aver segnato un piccolo contributo di precisione sull’argomento e di dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Gallipoli ciò che è di Gallipoli, anche se i gallipolini, in larga parte, hanno abbandonato questa meraviglia dorata per la quale valgono i versi che Umar Kayyam riserva al vino: “cosa comprerai tu, venditore, con il denaro che ti do per la scapèce, di più prezioso della scapèce stessa?”.
E chissà che qualche Chef non si misuri con la scapeciatura della coda di “tremula” e si possa anceh usare un pochino di quel pesce di mare che ormai si ributta in acqua perché “non fa mercato”. Il caro amico Sandro Romano ci ha raccontato dello “scarto” di alcuni pesci e/o molluschi. Io ricordo solo che la cultura del pesce risale (documentata) ad Archestrato da Gela (III secolo a.c.) con il suo: ‛Ηδυπάϑεια (I piaceri del Buongustaio), bellissimo poema in esametri dei quali esiste una bellissima edizione tradotta da Domenico Scinà nel 1846.
E non si abbia timore dello scarto della torpedine:
«Esser vuol la torpedine bollita
In olio e vino con erbe odorose,
E un pocolin di grattugiato cacio.»
Buona scapeciatura a tutti.