Avevo undici o dodici anni quando, pescatore subacqueo alle prime armi, riuscii a vedere il mio primo polpo distinguendolo dalle rocce sulle quali era poggiato, nonostante fosse perfettamente mimetizzato con l’ambiente circostante. In realtà fu lui a commettere l’errore di muoversi nel momento in cui gli passai a breve distanza, svelando la sua presenza e, forse, sopravvalutando la mia esperienza di sub. Se non lo avesse fatto non lo avrei visto e, certamente, il mio primo incontro sottomarino con questo affascinante cefalopode sarebbe stato rimandato ad un’altra occasione, ma quell’errore mi consentì di tornare a riva con la mia preda nel carniere, circostanza che fece felice mia madre, ottima cuoca.
Infatti, il polpo è senza dubbio tra i maggiori protagonisti della cucina di mare della Puglia e mia madre, barese verace, non perse tempo: fece a pezzi qualche pomodoro, un generoso giro di olio extravergine, un bicchiere di vino rosso, un “diavuìcchie” (peperoncino piccante), mise la mia preda insieme a tutti questi ingredienti in una pignata di terracotta e accese il fornello in modo che fosse cotta a puntino per la cena.
Inoltre, poiché in un detto dialettale barese si sostiene che la morte del polpo è la cipolla (“la morte du pulpe iè la cepòdde”) ne affettò un paio e le inserì, in modo da creare una densa e gustosa crema di accompagnamento.
L’animale era piuttosto grandicello, altrimenti – ne sono certo – mia madre neppure lo avrebbe cucinato, perché per un barese “u pulpe rizze” (il polpo arricciato) va gustato crudo, masticandone i tentacoli senza alcun altro accompagnamento se non il gusto salmastro dell’acqua di mare nella quale è stato sciacquato. Guai a mettere del limone sui piccoli polpi arricciati! Se vi becca un barese mentre glielo spruzzate sul tentacolo – “u cirre”, in dialetto – potreste litigarci di brutto!
Arricciato, che strano aggettivo per un polpo! In effetti prima del consumo, in Puglia si usa prepararlo soprattutto al consumo a crudo, ma anche per la cottura, riservandogli un particolare trattamento.
Dopo averlo privato delle interiora presenti nella testa, le cosiddette “malandre”, il polpo viene battuto con forza sugli scogli e/o con una mazza di legno, per intenerirne le carni, sfibrandole. Dopo questo trattamento piuttosto rude si usa metterlo in un canestro di rami d’ulivo e canne, comunemente chiamato “spàse”, e viene agitato a lungo, in modo che, perdendo acqua e creando una schiumetta che verrà risciacquata in acqua di mare, i tentacoli si arriccino fino a formare come dei boccoli.
Ma soprattutto si modificherà la consistenza delle carni che, alla masticazione, saranno più croccanti e non mollicce come nel polpo appena pescato.
Questo particolare modo di trattare il polpo è tipicamente pugliese, soprattutto di Bari e poco oltre la sua provincia, e non ha riscontro in nessun’altra regione italiana né in alcuna parte del Mondo.
È facile imbattersi su tutto il lungomare di Bari oppure nel luogo denominato comunemente “N-dèrr’a la lanze”, in uomini intenti a questa pratica che, in realtà, è un’attività piuttosto impegnativa, al punto che l’ingegno dei pescatori e dei pescivendoli è arrivato a mettere a punto persino una vasca mossa da un vecchio motore di lavatrice, una sorta di rudimentale culla, per creare, appunto, il movimento ondulatorio necessario affinchè il polpo si arricci.
A questo proposito e prima di darvi appuntamento al mio prossimo articolo sull’argomento, voglio lasciarvi con questi versi dedicati al polpo dal poeta dialettale barese Vito Bellomo, che, in chiave divertente, raccontano la sfortuna di un polpo pescato a Bari.
La malasort du pulp bares
‘Mmènz a tutt l’anmàl ca stònn o’mùnn
stè iùn ca ind a’mmàr, a’ffùnn a’ffùnn,
pass la vita sò jìnd a nu mod stran,
dìscjn ca iè fess e ca mà advent’anziàn…..
……U pulp! Tìnr d’cor, d’la plòs iè‘nnamràt
e stu fatt, sop alla terr, tant s’ha sputtanàt,
ca p’pizzcàu non gj’vol tand’esperiènz,
avàst nu spag, nu stezz d’plòs e la pascènz.
La chèdd du pulp,allòr, iè na vit’amàr,
ma u’chiù sfrtnàt iè cudd ca nàsci a Bbàr:
la vita so, iè normàl all’ald vànn d’la tèrr,
ma ddò p’jìdd iè na traggèdj, iè pèscj d’na uèrr.
Appèn ven pizzcàt, accòm ved la prima lùscj,
all’anvàm nu muèzzc’ngàp, angòr s’n’fùscj;
e minz stirdsciùt, pu dlòr e pu scjkànd,
ind a’nnudd s’send’trà tutt l’malàndr.
Non fàscj’attìmb a pnzà: ”Ma cuss iè mmàtt?”…
Ca u’Barès u’auànd e u’accmmènz a sbatt
k’tutt la forz e l’nirv sop all chiangùn,
l’cirr s’arrzzèscjn e ièss tanda scjkùm.
La tortùr non ha frnùt, u Barès insìst
e fort scduèscj u’pulp ind o’canìstr:
cert, p’tutt esìst la nascìt, la vit e la mort,
ma chedd du pulp barès iè na vera malasòrt!
La malasorte del polpo barese
Fra tutti gli animali che esistono al mondo
ce n’è uno che, nel mare più profondo,
vive la sua vita in un modo strano,
dicono sia un ingenuo e che mai diventi anziano.
…..Il polpo, tenero di cuore, è della pelosa (granchio favollo) innamorato
e, sulla terra, questo è tanto noto,
che, per pescarlo, non occorre tanta esperienza:
basta uno spago, un pezzo di granchio e la pazienza.
Quella del polpo è, allora, una vita amara,
ma il più sfortunato è quello che nasce a Bari:
la sua vita è normale, nel resto della terra,
ma qui, per lui, è peggio di una guerra!
Appena viene pescato e vede la prima luce,
subito un morso in testa, perché non scappi via;
e, mezzo stordito dal dolore e dallo spavento,
in un attimo si sente già svuotare il ventre.
Non fa in tempo a pensare: “Ma questo è matto!”
che il Barese lo afferra e comincia a sbatterlo
con tutta la forza e i nervi sugli scogli,
i tentacoli si arricciano e fanno tanta schiuma.
La tortura non è finita, il Barese insiste,
e con forza muove il polpo dentro un canestro;
certo, per tutti esiste la nascita, la vita e la morte,
ma quella del polpo barese è una vera malasorte!
Vito Bellomo