Basta a fotografare il cibo è arrivato il momento di mangiarlo

Ricordo i miei primi viaggi, quando, da ragazzo, non comprendevo il valore storico del cibo e mi approcciavo con sufficienza, disinteresse e a volte anche presunzione, alla cucina degli altri paesi. Poi, un giorno, quasi all’improvviso, scattò la molla che mi aprì la mente e mi fece vivere quei viaggi da un’ottica totalmente diversa, dandomi la capacità di comprendere che un piatto non è solo qualcosa che si mangia per soddisfare la fame, ma è sempre l’insieme di una serie di motivazioni e di significati. Una ricetta quasi sempre racconta la storia di un popolo, le sue tradizioni, la sua visione della vita.

È proprio questa una delle cose che raramente riesco a far comprendere alle “nuove leve” della comunicazione gastronomica, che hanno, invece, un approccio totalmente diverso, troppo legato alle immagini, al concetto del piatto che si mangia con gli occhi. Ebbene no, non sono d’accordo, un piatto si mangia con la bocca e con il cuore, gli occhi sono un passaggio successivo, anche se, insieme al naso, costituiscono il primo approccio.

Ho tenuto dei corsi in cui spiegavo che l’impatto estetico, pur importante, va messo da parte, in un angolo della mente (o della macchina fotografica) per riprenderlo alla fine, soltanto dopo aver assaggiato quel piatto. È solo dopo averne apprezzato la bontà che potremo alzare ancora l’asticella del nostro gradimento ricordandone il lato estetico, non prima!

A che serve un piatto bello, colorato, dalle forme armoniose se poi non sa di nulla, se gli abbinamenti non sono dettati dal gusto e ma dal colore?Certo, se un piatto è sia buono che bello è ancor meglio, ma qual è il giusto concetto di bello in qualcosa che deve appagare il palato, l’appetito o, addirittura, la fame?

Il concetto di bello spesso segue i tempi, le epoche, e laddove nel Medioevo era considerato bello servire un maiale intero con una mela in bocca, oggi se non fai sul piatto una striscetta colorata, uno schizzo, non ci metti un germoglietto o qualche petalo di fiori eduli, magari rigorosamente con la pinzetta, non sei nessuno.

E questa è solo una delle interpretazioni, poi ci sono le pizze strapiene di roba, i panini gocciolanti di salse, i primi piatti con palate di stracciatella, gli abbinamenti – insomma – più assurdi. Più assurdi sono più sembrano essere graditi dal “nuovo” pubblico di Instagram, Facebook e Tik Tok.

Chissenefrega se una salsa non ci azzecca nulla, o un formaggio non lega con quel determinato piatto, l’importante è che si facciano tanti strati colanti grasso e roba colorata, che importa se il pane è uno scadente bun decongelato invece di un pane di qualità, oppure se il prosciutto utilizzato è un economico estero piuttosto che un pregiato San Daniele? Che problema c’è se le cime di rapa le utilizziamo ad agosto e le fragole a dicembre?L’importante è che ne venga fuori una bella foto da postare, che sia – come fa figo dire – instagrammabile, in modo da prendere tanti like.

Da qui i successi di alcuni piatti che stanno distruggendo la nostra vera cucina, come le pizze alla Nutella, le assurde varianti degli spaghetti all’assassina, i paninazzi a 10 strati. Che poi, se ci pensiamo bene, è un concetto inventato dai crocieristi e dai frequentatori di villaggi turistici, che approcciandosi ai buffet e preoccupati di non riuscire a mangiare tutto, mettevano carne, pesce, verdure, formaggi, persino i dolci, tutti insieme nello stesso piatto. Quelli che io mi divertivo a chiamare i “piatti a castello”!

Sto esagerando? Non credo, davvero se ne vedono di tutti i colori.

Inoltre penso davvero che bisognerebbe tornare all’idea del cibo allontanandosi da quella dell’arte. Il cibo può avvicinarsi all’arte solo nelle mani e nella testa di pochi eletti, di chef con capacità creative fuori dal comune, con competenze di livello altissimo e attenti agli abbinamenti e alle materie prime. Tanto per capirci gente come Bottura, Crippa, Romito, Uliassi, Cedroni. E pure da noi, in Puglia ce ne sono un bel po’, non faccio nomi per non far torto a nessuno. Nei ristoranti bisogna far da mangiare, far star bene il cliente, coccolarlo e, possibilmente, anche fare attenzione a non distruggergli la digestione servendo cibi ben cucinati e non ignobilmente impiastricciati.Però, poiché la disinformazione è dilagante e la cultura gastronomica decisamente scarsa, ecco che locali di basso livello ottengono successo proponendo cibi intrisi di salse cacio e pepe buttate qua e là, improbabili pistacchi di Bronte (?), pancette e guanciali strafritti, doppi hamburger inframezzati da formaggi industriali. Oppure, come dicevo prima, sommersi da colate di stracciatella, che poi altro non rappresenta che la panna usata fino ad una ventina di anni fa.

Per carità nulla contro la stracciatella o i pistacchi, che possono essere di altissima qualità, è l’abuso che mi fa inorridire, perché non fa altro che rendere tutto uguale. Si mettono indipendentemente sul pesce, sulla carne, sulle verdure, qualcuno la metterebbe persino sull’ombelico di una geisha nel corso di un erotico Nyotaimori.* Per completare, magari, il piatto con un bel germoglietto di piselli rigorosamente aggiunto con la pinzetta, perché quella delicata nota verde ingentilisce il piatto e fa tanto figo.

Ma insomma, vogliamo tornare a far da mangiare davvero? Abbiamo piatti della nostra cucina regionale che mettono insieme gusto e salute, come fave e cicorie, orecchiette e cime di rapa o la tiella di riso patate e cozze. Quest’ultima mica è facile trovarla in un ristorante della città, sono davvero pochi quelli che la propongono in menu e non tutti la fanno a regola d’arte. Eppure il turista in visita nelle nostre città, nella maggior parte dei casi, quei piatti cerca, esattamente come facciamo noi quando andiamo in vacanza.

Poi ben vengano cuochi come Antonio Bufi, Angelo Sabatelli o Cosimo Russo – solo per citarne alcuni – capaci di andare oltre e di creare di sana pianta piatti di grande gusto, partendo da zero e usando le loro enormi capacità creative e tecniche. Ma quanti possono permettersi di farlo? E allora perché non rimanere con i piedi per terra e imparare a far bene ciò che è già in qualche modo conosciuto? Significa sminuirsi? Assolutamente no, a mio parere.

Vedo ragazzetti appena usciti dalla scuola alberghiera che, prima di imparare a fare i brodi – tecnica fondamentale della cucina – a preparare la pasta fresca o cuocere a puntino un pesce o una carne, si cimentano con sifoni, azoto liquido, pennelli e pinzette. Insomma, come ormai di gran moda in molti campi, l’apparenza batte la sostanza, complice anche una divulgazione gastronomica sbilanciata sull’immagine, cioè sul concetto di ciò che è bello fotograficamente.

La comunicazione gastronomica è una responsabilità, chi guarda un video di Instagram o legge l’articolo di un giornale, deve comprendere la qualità, grazie alla capacità descrittiva dell’autore, non all’entusiasmo o alla veemenza utilizzata. Non va bene che orde di ragazzetti muniti di cellulare facciano video pieni di wow, di urla e di consigli, che possono, a volte, creare persino situazioni pericolose per la salute. Ho visto gente che consiglia preparazioni di pesce crudo senza abbatterlo, conserve senza sterilizzazione e piatti con accozzaglie di roba, servite nei locali che li ospitano gratis o che arrivano addirittura a pagarli per la loro pubblicità. Pubblicità che andrebbe dichiarata, tra l’altro. Blogger che vengono seguiti da migliaia di persone ignare dei rischi che possono correre, oppure giornalisti o presunti tali che, non sapendo neppure cuocersi un uovo fritto o aprire una scatoletta di tonno, si spacciano per critici, gastronomi o talent scout. Ce ne sono eccome, credetemi, anche in Puglia.

Mi vengono in mente, a tal proposito, i video del mitico chef Ruffi che, riproponendo piatti storici e utilizzando tecniche e materie prime assurde, viene insultato a dismisura da chi lo guarda. Un grandissimo per me, perché Ruffi con la sua ironia spinta – sicuramente studiata a tavolino – ridicolizza se stesso per ridicolizzare proprio il vasto mondo della disinformazione gastronomica. Una volta ha fatto persino l’olio extravergine utilizzando il peggior olio di semi e colorandolo con qualche goccia di clorofilla “tanto non si è mai lamentato nessuno”. E che dire del suo esilarante “brodo d’acqua”, che tanto mi ricorda quello di pomodoro, altrettanto divertente, ottenuto dall’unione di acqua e concentrato, largamente utilizzato in una ricetta tanto di moda a Bari? Nelle sue performance, inoltre, c’è sempre quella che chiama “la versatile”, cioè la tanto vituperata panna che tutto aggiusta e che rappresenta idealmente il grasso aggiunto per ottenere maggiore succulenza nei piatti.

Se utilizzate Instagram vi consiglio vivamente, inoltre, di seguire Guido Mori, cuoco e docente di grande competenza, che, senza timore, fa i raggi X alle porcherie che si trovano sul web, analizzandole con precisione e spiegando perché molti di questi “comunicatori” farebbero bene a starsi zitti. Ma soprattutto, poiché ogni cosa è molto ben motivata, è davvero occasione di crescita e apprendimento. Pensate che ha spiegato persino il perché un notissimo cuoco televisivo ex stella Michelin, ha detto e fatto decine di imprecisioni ed errori parlando della reazione di Maillard. Sono certo che, prima o poi, anche lui passerà al setaccio alcune delle cosette di casa nostra.

Personalmente mi è capitato, una volta, di essere attaccato perché avevo parlato di alcuni piatti definendoli pessimi e motivando dettagliatamente tale giudizio. Mi fu detto che non dovevo permettermi, perché il mio giudizio qualcuno lo segue. Bene ne sono felice e spero davvero possa spingere chi mi legge ad approfondire la cucina, quella vera, quella fatta di materie prime di livello, di stagionalità e di una territorialità neppure troppo spinta, in quanto ormai, con la velocità di trasporto e le tecniche di conservazione, è giusto che il chilometro zero possa lasciare il posto anche a prodotti di alta qualità provenienti da più lontano.

Allora, cari lettori, vi lascio con alcune domande: “Secondo voi, un critico d’arte può esprimere, motivandola una sua opinione? Un critico cinematografico è libero di preferire film di alto livello culturale ai cinepanettoni, dandone pubblicamente un giudizio?”

“Eh, ma le porcherie fanno fatturato – rispose quel ristoratore”.

Aveva ragione, il modo più facile per fare soldini è andare a pescare nel grande mare dell’incompetenza. Ma non è questo che fa di uno spadellatore uno chef. Che facciamo, allora, ci adeguiamo a questo mondo gastronomico in cui l’evoluzione spesso diventa involuzione?

Intanto che ci pensate, mi preparo un ottimo, salutare piatto di fave e cicorie, e voi fatemi sapere cosa ne pensate di queste, invero un po’ amare, riflessioni…

 

* Il Nyotaimori è la pratica giapponese del servire i cibi sul corpo femminile nudo

 

 

 

 

 

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