Comincia in questa estate torrida questa mia presenza in questa casa di amici. E vorrei narrare di “scapece”, ma son certo che di narrazioni ne avete sentite tante. Molte di esse sono state copiate (male) da un articolo che scrissi molto tempo fa per evitar confusione fra carpione e scapece, come viene riportato in numerosi manuali “moderni” scritti spesso in forma approssimata e superficiale.
Non fosse altro che per le origini: il carpione è un modo di dar gusto a qualcosa che, di suo, ne ha poco, come il pesce di lago, e il sikbâg (da cui itzcabeche, escabeche, scabeccio e, vivaddio, scapece) invece deve ridurre un piatto di carne di montone che di gusto ne ha fin troppo!
Certo resta in piedi l’attributo di “Escha Apicii” che veniva dato alle alici con le quali si confezionava il “garo” (dal Sommario della alieutica del 1863), ma la preparazione di quella leccornia è tutt’affatto diversa da quella che vediamo splendere con il colore del sole.
Non è qui il luogo per discettare di aceti, pinoli e “saor” ma per raccontare la storia del principe di condimenti che caratterizza la “scapece” gallipolina. Sua maestà lo zafferano.
Ed anche qui bisogna ricordarsi dell’origine araba (zaʿfarān) che, nella scuola occidentale, si dice “croco” (nome latino crocus sativus) da non confondere con il cartamo. Interessante anch’esso ma ne parleremo un’altra volta.
Da quando si conosce lo zafferano?
Nel Cantico dei Cantici (Terzo Poema), lo sposo dice:
«I tuoi germogli sono un giardino di melagrane,
con i frutti più squisiti,
alberi di cipro con nardo,
nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo
con ogni specie d’alberi da incenso;
mirra e aloe
con tutti i migliori aromi.»
E anche delle minestre di Lucullo si dice gran bene (1565) come testimonia il Cuoco Galante (Vincenzo
Corrado):
«Del zafferano.
Il zafferano, o croco, nasce da cipollette, e forma un fiore rosso in varj filamenti, i quali si raccolgono I’estate, e si conservano tutto I’anno ben chiusi in una scattola, per poi servirsene a colorire, e a render gustosi, i geli, i brodi, le salse, le minestre di riso, e qualunque si voglia altra vivanda siccome grandemente si usava alle cene di Lucullo.»
E, dunque lo zafferano è degno condimento dalle mille storie, e lo zafferano è nella scapece perché sulle serre di Nardò, Galatone la sua presenza era endemica, cresceva libero e felice prima di essere distrutto per piantar cotone, tabacco o altre amenità che servivano ai latifondisti. E di zafferano d’oggi vi racconto una storia.
Tre amici con la passione del “vediamo che succede” e lo Zafferano è tornato a casa, ad Aradeo. Un breve periodo di “gioco” ed ora “Luna Zafferano” è un nome affermato nel gotha dei produttori del prezioso pistillo. E si appresta a ricevere una certificazione di qualità secondo i criteri definiti dall’apposito disciplinare.
Con Sergio Minerba, uno dei tre moschettieri che, nel settembre 2015, hanno principiato questa avventura mettendo a dimora un migliaio di bulbi su un rettangolo di 200 metri quadri, ripercorriamo rapidamente le tappe di un cammino che comincia con un viaggio e continua con la storia.
Sergio, commercialista, non è nemmeno cinquantenne e con due amici, Fausto Chirivì (ex barista) e Maurizio Bono (contadino), andarono a visitare Città della Pieve (uno dei comuni italiani continentali dello zafferano con Ripacandida, Vicchio, Fucecchio, Gubbio e Cascia) e da quel viaggio si son portati dietro la cultura e la saggezza di persone senza tempo che hanno insegnato loro come si tratta il fiore prezioso.
“Ma come capisco che il pistillo è pronto dopo l’essiccazione?” Ebbe a chiedere Sergio alla sua “maestra” (oltre novanta anni suonati). La risposta fu semplice: “Te ne accorgi dal profumo!”
E così Luna Zafferano è diventato una realtà che, in meno di un ettaro di terra, ha portato la produzione dai 18 grammi del “gioco” a quasi un chilo l’anno, consentendo a Fausto di lasciare il Bar e dedicarsi pienamente al colore del sole.
Non so se gli ultimi “scapeciari” del Salento usino o meno il Luna Zafferano (Azienda Agricola Luna), ma so di poter dire una cosa. Prima o poi la saggezza della politica tornerà ad occuparsi di cose reali e lo zaʿfarān è una di quelle realtà che sarebbe un crimine non legare al territorio. Anche per la scapece.
Poi, ovviamente, il fascino della raccolta, della essiccazione, dell’uso degli stimmi, è un potentissimo motore turistico territoriale, ma questa è un’altra storia che, forse, racconteremo un giorno. Se vi piace. Per ora ricordiamoci che l’oro costa circa 70 euro al grammo e per ottenerlo bisogna sventrare una montagna. Chi trova l’oro diventa ricco. Lo zafferano costa circa la metà, ma, per produrlo, bisogna solo rendere più bella la propria terra. E arricchisce un intero territorio.
Buona scapece a tutti.