La paparotta, il piatto salentino della tradizione contadina

Siamo ormai troppo abituati alla cucina spettacolo, ai piatti dei grandi chef e persino ai pastrocchi che si vedono su Instagram e Facebook, fatti con improbabili ingredienti messi a casaccio, panini con ripieni a strati sovrapposti, creme e salse straripanti, orribili spaghetti bruciati con stracciatella e roba varia.

Per carità, la cucina può essere ottima a tutti i livelli se ben pensata e ben eseguita, ma, certamente, quella che non tradisce mai, è quella di tradizione, con piatti che hanno attraversato gli anni, a volte i secoli, ma anche le guerre, le carestie e la povertà.

Qualche giorno fa mi sono imbattuto, nel ristorante Chiostro degli Scolopi a Tricase, in una ricetta che mi ha riempito il cuore, un bocconcino servitomi in un cucchiaio, una sorta di benvenuto o – come si usa dire – amuse bouche.

L’ho buttato giù, ovviamente in un sol colpo, ma mi si è aperto un mondo di gustosi sapori. Ho chiamato il cuoco patron del ristorante e gli ho chiesto di prepararmi una porzione seria, perché il cuore era felice ma la pancia no.

Poi, mentre Antonio Carbone – il cuoco appunto – preparava la mia scodella, ho voluto chiacchierare con la mamma, la signora Anna Riposa Giannuzzi, per chiederle tutti i segreti di questo piatto straordinario, che a Tricase chiamano “A Paparotta”.

La simpaticissima Anna Riposa mi ha raccontato tutto, partendo dal fatto che, in ogni paese del basso Salento, questa pietanza ha un nomignolo diverso: Marenna, Scurdijata, Cialicurda, Cecamariti cu li muerzi fritti, ‘Mpanata, Acqua covata, Pisciammare.
Piatto di recupero della tradizione contadina, nella tradizione di Tricase altro non é che pane raffermo, cime di rape, piselli o fagioli alla pignata e olio buono, perché – mi racconta – a quell’epoca, l’olio extravergine non si otteneva con le tecnologie di allora.

“Mio marito la chiamava la Paparotta – mi racconta Anna – ed era un piatto molto nutriente per chi lavorava in campagna. Si prepara con pane raffermo, addirittura anticamente si usava quello “cu la puloma”, cioè con inizi di muffa, che venivano raschiati e puliti con uno straccio, mischiati in olio insieme ad un avanzo di verdura cotta, ad esempio le cime di rapa e una rimanenza di legumi come fagioli e piselli”

E la signora Riposa – così la chiamano tutti al paese – mi ha dato la sua semplice ma straordinaria ricetta:

  • fare a cubetti il pane raffermo, friggerlo in olio extravergine finché non diventa dorato e quando girandolo con il mestolo suona come sassi (“a sunare” si usa dire nel Salento).
  • Metterlo da parte e nell’olio rimasto nella casseruola dopo la frittura del pane, versare i legumi e la verdura precedentemente ripassata, aggiungere un po d’acqua e continuare la cottura a fuoco lento, rimescolando con il mestolo di legno ogni tanto, finché il tutto non diventa quasi una poltiglia.
  • Poi togliere dal fuoco, versare i tocchetti di pane precedentemente fritto e rimescolare energicamente il tutto, servire in un piatto fondo, con un peperone fritto o con delle olive Nolche, sempre fritte.

“E poi – aggiunge la mamma di Antonio Carbone – finire con un giro di olio buono e tanto amore”.

 

Foto Credits: Giovanni Mastropasqua e Antonio Carbone

Gallery