Tra i miei personali ricordi del Natale c’è la preparazione della cena della Vigilia e dei pranzi dei giorni successivi, Natale e Santo Stefano.
Sono ricordi che partono dall’infanzia e poi si sono susseguiti anche in modi diversi nel tempo, perché ovviamente dipendono dalle persone e dai luoghi in cui si svolgono.
Quando ero bambino, ricordo che i primi sentori di feste natalizie arrivavano a dicembre, quando le strade, i negozi e i balconi delle case venivano addobbati con le lucine, e l’albero, secondo tradizione, non si preparava mai prima dell’8 dicembre, giorno dell’Immacolata.
Da un po’ di anni a questa parte, invece, le cose sono un po’ cambiate.
Le città si vestono a festa già da i primi di novembre e conosco tante persone che addirittura addobbano l’albero persino a ottobre, mentre i negozi di oggettistica e gli ipermercati cominciano ad allestire interi reparti con luci, pupazzetti in stoffa, soldatini di legno, alberi, decorazioni, e Babbo Natale in tutte le sue declinazioni.
Da quello che si appende al balcone e simula l’arrampicata per portare i doni a quello che parla dicendo il classico “Oh Oh Oh”, oppure quello che appena gli passi davanti comincia a muoversi e ti saluta cantando Jingle Bells.
Il mondo degli allestimenti natalizi ormai propone di tutto e la gamma delle luci decorative è pressoché infinita, da quelle classiche, bianche o colorate, intermittenti o fisse, a quelle che proiettano immagini sui muri, per finire a scenografici ologrammi che possono farti apparire Babbo Natale persino nel giardino di casa, quasi fosse vero, in carne e ossa.
Per assurdo, però, i bambini di oggi percepiscono queste cose per ciò che sono, forse perché se le trovano davanti tutti i giorni e hanno quindi la possibilità di capire che si tratta soltanto di decorazioni per creare atmosfera.
Ma probabilmente anche perché sono molto più avvezzi di noi a tutto ciò che è tecnologico, mentre noi tutte queste cose non le avevamo a disposizione e sopperivamo soprattutto con la fantasia.
Ricordo che quando le mie figlie erano piccole, spesso di sera ci appostavamo davanti alla finestra nella speranza di vedere passare in cielo la slitta di Babbo Natale impegnato nella consegna dei doni e io, appena si distraevano, dicevo di averlo visto.
Così anche loro, per non esser da meno, si lasciavano condizionare e confermavano di esserci riuscite anche loro per un attimo. Si creava così un attesa che aveva il suo culmine dopo la cena della Vigilia e, per tanti anni, mio suocero si è vestito da Babbo Natale portando il sacco con i pacchi.
Era un momento magico per le mie figlie ma, in fondo, anche per noi adulti, che percepivamo la loro forte eccitazione. Poi Babbo Natale andava via e, uno alla volta, si aprivano tutti pacchi con la classica formula “Da … a…” scritta sul bigliettino che accompagnava il regalo.
Tornando ancora più indietro negli anni, ricordo che il periodo natalizio, veniva sancito soprattutto da due momenti cardine: l’allestimento dell’albero e la preparazione dei dolcetti.
Tutto ciò iniziava, appunto, a dicembre. Per la preparazione delle cartellate e di tutte le altre leccornie, mia nonna riuniva figlie e nuore e ad ognuna dava un compito.
Dopo una giornata di lavoro venivano fuori, oltre alle cartellate, anche mandorle pralinate, torrone, pàne fenìscke, castagnelle, sasanelli e un dolce che mia zia aveva imparato da amici calabresi, la pignolata.
L’albero, invece, veniva allestito rigorosamente l’8 dicembre e di solito era un abete vero che veniva decorato piuttosto casualmente, senza un preciso tema o un colore dominante, con palle e decorazioni varie, oltre a fili argentati e dorati e serie di lucine intermittenti.
Rari erano gli alberi finti, anche perché in quel periodo erano davvero brutti e poco credibili.
Qualcuno, comunque, giustamente li preferiva già all’epoca perché l’abete vero era destinato a seccarsi a causa delle condizioni di temperatura non certo ideali per la sua sopravvivenza.
Quello finto si tirava fuori dallo stretto cartone in cui era stato riposto l’anno precedente per conservarlo in soffitta, nello sgabuzzino o in qualche armadio, e veniva aperto ramo per ramo, in modo da riportarlo alla forma di albero.
A questo punto si apriva il cartone delle decorazioni che consistevano in palline colorate da appendere a gancetti di plastica a “S”, ma anche simpatici animaletti o uccelli con le piume dotati di mollette metalliche per farli stare appollaiati sui rami.
Queste decorazioni erano fatte di sottilissimo vetro ed erano, quindi, delicatissime, motivo per cui, ogni anno, aprendo la scatola, se ne trovavano parecchie rotte in mille pezzi. Qualche pallina si riusciva a recuperare mettendola in un punto poco visibile e girandola dalla parte sana in modo che non si notasse quella danneggiata.
Una volta messe queste decorazioni, si facevano girare tutto intorno le lucine colorate, formate da tante piccole lampadine ad incandescenza collegate in serie. Era necessario, pertanto, avere sempre qualche lampadina di riserva, perché, fulminandosi con facilità, bastava che se ne spegnesse una per interrompere la catena e, quindi, impedire l’accensione di tutte le altre. Queste luci era necessario collegarle ad un trasformatore che ne comandava l’intermittenza.
Si passava, poi, ai fili dorati da far girare tutto intorno all’albero e alla cascata argentata, formata da sottili fili luccicanti, che decoravano partendo dall’alto verso il basso.
Una volta inserito il puntale, l’albero era pronto, e fino all’Epifania avrebbe avuto il suo ruolo da protagonista nella casa.
L’altro particolare momento in cui forte si avvertiva l’aria di Natale, era la preparazione dei momenti conviviali del 24, del 25 e del 26.
Il 23 dicembre si organizzava il tutto e si acquistava tutto ciò che occorreva per la preparazione.
Mia nonna acquistava tutto dal mercato che, partendo rimaneva aperto anche di sera, con le bancarelle illuminate, contribuendo anch’esso a quella caratteristica atmosfera.
Ciò che non potrò mai dimenticare era quel che accadeva nella cucina di casa mia la mattina del 24 dicembre.
L’inizio della cena era previsto intorno alle 17/17:30, massimo 18:00 e, quindi a pranzo era abitudine digiunare, o come si usa dire a Bari, “fare vigilia”.
A casa mia, come del resto in tante altre case, si usava “digiunare” aiutandosi con qualche stuzzichino, che poi tanto stuzzichino non era.
A tavola, mia madre e mia nonna preparavano le pettole, che noi baresi chiamiamo popizze, sia classiche che con il baccalà, oltre ai finocchietti con le alici e alle cime di rapa stufate.
Roba buonissima che doveva servire a “mantenere lo stomaco”, ma che, in realtà, gustavamo con piacere facendo finta di essere frugali solo perché stuzzicavamo con nonchalance, in modo informale, a volte persino in piedi.
Ma, a parte questo strano modo di digiunare (sic!), la mattina evitavo di entrare nella cucina di casa nostra, perché mia madre e mia nonna erano alle prese con anguille e capitoni, che sgusciavano fuori dalle sporte e gironzolavano scivolando sul pavimento di ceramica, infilandosi sotto i mobili e il tavolo.
Agguantarli era un’impresa difficilissima, quindi li recuperavano munite di carta di giornale, che serviva a non farli scivolare dalle mani, e poi li mettevano nel lavello, dove avveniva la mattanza.
Le anguille, ridotte in segmenti, finivano nel sugo che poi, a cena, avrebbe condito gli spaghetti o le linguine, il classico piatto della Vigilia di Natale.
Un piatto che divideva molto, c’era chi ne andava matto e chi, invece, non lo gradiva proprio, tanto che, spesso, si era costretti a preparare un’alternativa preparando un sugo di pesce o con le cozze, oppure, soprattutto per i bambini, con il tonno in scatola.
Il capitone, invece, si usa farlo al forno o alla brace con l’alloro, e l’unione del pesce con le profumate foglie crea il caratteristico profumo che riempie le strade delle città, perché viene preparato in quasi tutte le case.
Anche per il capitone, cioè l’anguilla femmina, molto più grande e grassa ma proprio per questo profumata e saporita, era necessaria un’alternativa per chi non l’apprezzava, che, di solito, era il pesce fritto.
Una cena importante quella della Vigilia di Natale, che oltre a queste due portate principali, constava di antipasti, crudo di mare, ortaggi e verdure, oltre agli immancabili dolcetti, alle cartellate e al panettone.
Finiva con i liquori fatti in casa e poi si aprivano i regali portati da Babbo Natale, ma si era ben consapevoli che il giorno dopo e anche quello dopo ancora ci sarebbero stati altri due pranzi luculliani, quello del Natale e di Santo Stefano, con gli avanzi da consumare per tirare quasi fino alla fine dell’anno.
Come uscire senza danni al girovita da questa tre giorni? Impresa ardua, quasi impossibile!