La domenica spesso avanzava la pasta con il ragù, quello bello tirato 5 o 6 ore fatto con le brasciòle di cavallo o di vitello. Quando dico brasciòle intendo gli involtini di carne ripieni di lardo, pecorino, aglio e prezzemolo, da non confondere assolutamente con le braciole, che sono altra cosa, ma il cui termine è spesso usato a vanvera per un’inutile quanto errata italianizzazione del termine dialettale.
Non parliamo proprio, poi, di bragiuola o bragiuoletta anch’essi termini abusatissimi!
Volutamente, di quel ragù domenicale se ne faceva un bel po’ in più, tanto si sapeva che in molti avrebbero bissato volentieri e, comunque, quello avanzato avrebbe avuto nuova vita la sera stessa o il giorno dopo.
Così, una volta terminato il giro del bis per chi lo gradiva, mia nonna riportava in cucina la coppa che conteneva la pasta rimasta e si proseguiva con i secondi e tutto il resto.
Il pranzo terminava piuttosto tardi ed era bello pesante, però, arrivata la sera, c’era sempre qualcuno che aveva ben digerito e dichiarava di avere un languorino allo stomaco.
Da bambino io mangiavo poco o nulla a pranzo, ma la sera ero pronto anch’io al recupero degli avanzi, perché sapevo che mia nonna o mia madre mi avrebbero preparato la pasta bruciata, che a me piaceva tantissimo.
Di solito erano rigatoni, ma funzionava benissimo anche con le orecchiette, l’importante era creare quella crosticina bruciacchiata che tanto mi piaceva.
Così, accendevano il fornello, aggiungevano un po’ d’olio in un piatto di alluminio militare che ancora oggi conservo nella mia cucina come importante cimelio, e versavano quella pasta che, dopo aver riposato in frigorifero, si era ben acciaccata.
Poco dopo lo sfrigolio dell’olio si faceva evidente e quella pasta cominciava ad attaccarsi alle pareti del piatto creando una crosticina scura, le si dava una rimescolata per completare la gratinatura e poi quel piatto arrivava direttamente in tavola.
In casa mia venivano chiamati, in dialetto barese, “le maccarùne abbresciàte” (i maccheroni bruciati) oppure “le maccarùne sfrìtte” (i maccheroni soffritti), o anche “le maccarùne arrestùte” (i maccheroni arrostiti), un po’ come girava quel giorno a mia nonna.
In Campania, ad esempio, viene chiamata pasta arruscata. Ma i nomi possono essere tanti, nel tarantino la chiamano “pasta scarfata”, mentre a Mola di Bari li ho sentiti chiamare “maccarùne appezzechète” (maccheroni attaccati) per il fatto che si attaccano alla padella e bisogna staccarli per poterli mangiare.
Infatti il mio racconto si riferisce a ciò che accadeva, appunto, in casa mia, perché di solito per bruciacchiarli si utilizzava la padella di ferro, quella chiamata sartàscene a Bari e a Gravina in Puglia sartàschene, non il piatto in alluminio che utilizzava nonna per la mia monoporzione, ma nel quale comunque si attaccavano e si creava benissimo la classica crosticina.
È ancora possibile acquistare questa padella in qualche mercatino o in un fornito negozio di casalinghi, ma non è più utilizzabile nei ristoranti in quanto non a norma.
Per intenderci è la padella nella quale sono nati gli ormai celeberrimi Spaghetti all’Assassina, che, però, è bene specificarlo, non sono la stessa cosa e non sono un piatto di riciclo, anche se il risultato è abbastanza simile.
Infatti è, però, assolutamente ipotizzabile che l’inventore dell’Assassina, nel non troppo lontano 1967, si sia comunque ispirato a questa ricetta di riciclo, molto più antica, ma che ha molte caratteristiche in comune, soprattutto la crosticina che si crea nel ripassare la pasta in padella.
Crosticina gustosissima certamente, ma da un po’ di tempo sembra essere diventato il leit motiv di tanti, troppi cuochi baresi che stanno bruciacchiando ogni cosa, e, pertanto, voglio augurare al mondo della cucina tradizionale barese che la gran parte di questi cuochi possa tornare a cucinare per davvero evitando di omologarsi a questa dannosa moda. E magari a riproporre nei ristoranti del capoluogo piatti tradizionali certamente più complessi e non facili da trovare, ma che se fatti a regola d’arte sono strepitosi, come la tiella di riso patate e cozze o la làneca rezze con seppie o cozze ripiene, la zuppa di pesce, la penna fritta (palombo), le orecchiette con le cime de còle (cime di cavolo), “u cazzemàrre” (il marro), le alici spinate e fritte, il ciambotto, e tanti, tanti altri che, però, richiedono maestria o quanto meno quella dose di “amore” che le nostre nonne o mamme sapevano mettere in ogni loro preparazione.
Foto Credits: Sandro Romano