Per alcuni è già nota come “la Franciacorta del Sud”. Ma la zona compresa tra San Severo e i suoi dintorni ha ancora bisogno di energie per crescere e diventare quel distretto spumantistico che i suoi produttori sognano e gli impianti sembrano promettere. Non tutte le storie hanno un finale già scritto. Quella di San Severo ha tante buone premesse, ma anche numerose trappole.
San Severo fu fondata dall’eroe greco Diomede col nome di Castrum Drionis (Casteldrione. Nel 536 san Lorenzo Maiorano, vescovo di Siponto, avrebbe imposto all’abitato il nome di un fantomatico governatore Severo, da lui convertito al Cristianesimo. Perla della Capitanata nel Cinquecento, San Severo era un crocevia di ricchi commerci, vitalità culturale e autonomia amministrativa. Questo ne fece uno dei maggiori centri del Mezzogiorno. Tuttavia, debiti passati e incapacità gestionali portarono la città a passare di mano in mano. Nel 1627 la città fu rasa al suolo da un terribile terremoto. Appena proclamato il regno d’Italia, fu la prima città della capitanata a issare il tricolore e i sanseveresi si distinsero per la repressione del brigantaggio. Oggi la città può annoverare numerose imprese, soprattutto agroalimentari, solide. Ma la depressione sociale e culturale ha minato l’aura di grandezza della zona. L’idea, che alcuni viticoltori stanno portando avanti per costruire un distretto spumantistico proprio qui, a San Severo, potrebbe essere la luce in fondo al tunnel per un territorio con tanta voglia di rinascere.
La storia di questo tanto sognato distretto spumantistico di San Severo inizierebbe nel 1973, quando la cantina D’Alfonso Del Sordo fa un esperimento: spumantizzare il Bombino bianco con il metodo Charmat. In un territorio in cui il vino da taglio è ancora la principale fonte di reddito, ecco sbocciare la prima bollicina, nata quasi per gioco e destinata a diventare la capostipite della produzione spumantistica in tutta la Puglia. Ancora una volta la sapienza dei sanseveresi sembrava voler guidare la prosperità di un’intera regione. Ma dopo questo esperimento, ci vogliono sei anni per vedere il seme germogliare anche altrove.
Siamo nel 1979. Tre amici – Girolamo D’Amico, Louis Rapini e Ulrico Priore – decidono di unire il piacere dello stare insieme come musicisti all’idea di fare qualcosa di nuovo con le vigne del territorio. Nasce così la casa spumantistica d’Araprì. In un dedalo di corridoi sotterranei, questo gruppo di jazzisti inizia ad “ascoltare lo spumante”. Bombino bianco per le basi e tanta pazienza. Niente vigne: si compra da altri e si lavora solo nelle cantine ipogee della città. La passione per lo spumante, di cui oggi si producono 130 mila bottiglie attingendo dai 16 ettari vitati di proprietà, ha unito anche i figli dei tre fondatori – Anna d’Amico, Daniele Rapini e Antonio Priore – che stanno portando la cantina nel nuovo secolo. Attraverso il loro lavoro, vogliono tramandare la storia dei territori e produttori, com’è accaduto con la Dama Forestiera, un’eccellenza d’Araprì realizzata in memoria della Dama Elisa Krogan. Inoltre, desiderano creare sinergie con altre realtà del territorio, ma sembra che l’impresa non sia facile.
Infatti, i marchi che creano spumanti metodo classico si sono moltiplicati. Ma sembra che i produttori e animatori delle cantine sotterranee della città, non riescano a trovare un accordo sulla istituzionalizzazione di questa Franciacorta del Sud. Nata dalla sinergia tra Antonio Pisante e Leonardo Battello, Pisan-Battel fa un lavoro diverso rispetto a d’Araprì. Si parte da vigne allevate a guyot e cordone speronato, e non con il metodo del tendone, utilizzato in quasi tutta la campagna sanseverese. Obiettivo: fare altissima qualità con i vitigni più rappresentativi del territorio. Quindi sì Bombino bianco, ma anche eccellente Nero di Troia. Secondo Pisante il lavoro dei singoli può avere un peso commerciale solo se ci si unisce. Infatti, in un territorio composto da 540 cantine censite e una produzione di 200.000 bottiglie annue di solo metodo classico, la fetta di mercato che si può intercettare è enorme. Con l’aggregazione si potrebbe arrivare fino al milione di unità. Perché non succede? Gelosie, paura di perdere la propria identità, gangli amministrativi troppo stretti? In realtà la coordinata da seguire resta l’eccellenza. Unendo le cantine di San Severo e dell’intera provincia foggiana – in cui si distinguono marchi come 60 passi di Orta Nova, Re Dauno di San Severo, Alberto Longo di Lucera – si può realizzare un polo forte e di alto profilo, capace di competere sulla scena nazionale e internazionale. Inoltre, l’iniziativa potrebbe dare nuova linfa a un mercato del lavoro asfittico, che vede una emorragia continua di professionalità. L’aiuto potrebbe venire da uno strumento che qui stenta a prosperare – la cooperativa – ma anche dalla fiducia nel proprio territorio.