Spesso nella cucina popolare i nomignoli che vengono dati alle pietanze possono esser un po’ – come dire – birichini, e anche piuttosto volgari. Me ne vengono alcuni: spaghetti alla puttanesca, coglioni di mulo, palle del nonno, cazzilli di patate, minni di virgini, cazzimperio, brandacujun, strozzapreti, pane cafone. La Puglia non è da meno ed ecco che abbiamo la cape de morte, i minghiariddhi, u cazzemàrre, u càzze de rré, la fica regina, le tette delle monache, le ciole di cavallo.
È proprio di queste ultime che voglio parlarvi, e, per farlo con completezza, mi preme innanzitutto scusarmi con voi lettori se le mie spiegazioni potranno creare qualche imbarazzo, ma si tratta di argomento che va affrontato schiettamente, così com’è. È storia, è tradizione, è cucina popolare e, soprattutto, è realtà.
Non scandalizzatevi né sorridete sotto i baffi, perché le “ciole di cavallo”, dette anche “brasciole di ‘ndrame”? non sono quello che pensate, non hanno nulla a che vedere con l’organo riproduttivo del potente quadrupede. Sono, però, un antico cibo barese che deriva, appunto, dal grande utilizzo della carne di cavallo da sempre la più tipica tra le carni cucinate nel capoluogo pugliese.
Bari – si sa – è la città con più macellerie equine al Mondo e il consumo della carne di cavallo risale alla notte dei tempi, soprattutto quando si trattava di un alimento a buon mercato. Infatti una volta il suo prezzo era nettamente inferiore a quello del vitello o dell’agnello, motivo per cui, quando la carne era considerata un alimento che ci si poteva permettere raramente, il cavallo diventò il protagonista del ragù della domenica barese.
Con la falda (diaframma) di cavallo si preparano le brasciòle, i tipici involtini di carne ripieni di aglio, lardo, prezzemolo, pecorino e pepe, che vengono messe a cuocere per 5/6 ore nella salsa di pomodoro finché non diventano morbidissime, rilasciando nel sugo tutto il loro sapore che servirà per condire le tipiche orecchiette baresi, quelle piccoline e tirate direttamente con il coltello, senza essere rivoltate sul dito.
Per quanto riguarda, invece, il quinto quarto, le cosiddette frattaglie, del cavallo è apprezzato il fegato ma un’antica prelibatezza sono, appunto, le “ciole”. Ne ho parlato per la prima volta nel lontano 2008 quando sembrava un argomento intrattabile proprio a causa del nome popolare di questo alimento che richiama, appunto, in dialetto barese, il membro virile. Nel 2015 sono state anche oggetto di sfida, nel programma “Unti e bisunti”, tra chef Rubio e “U russ”, titolare di un noto chiosco nelle vicinanze del Castello svevo di Bari. Si tratta di pezzi di colon retto lavati e disinfettati con molta accuratezza e poi cotti sulla brace di legna oppure nel sugo.
Accedendo alla città vecchia dall’arco che dal Lungomare entra in via Re Manfredi, non è raro imbattersi, soprattutto nella bella stagione, in una bancarella attrezzata di barbecue che vende per pochi euro le ciole arrostite consegnandole bollenti in un cartoccio. Se volete provare a cimentarvi nella preparazione armatevi di pazienza e, soprattutto, non siate schizzinosi, perché, com’è ovvio, il colon retto è una parte dell’animale che trattiene feci, sangue e paglia, motivo per cui l’operazione di lavaggio è lunga, laboriosa e non piacevole.
Fu la signora Chiara, barese verace abitante nel borgo antico, che molti anni fa mi spiegò la lunga preparazione. Una volta portato a casa l’intestino che ci sarà stato fornito dal macellaio di fiducia, bisognerà tagliarlo in senso longitudinale per aprirlo e, strofinandolo energicamente con tantissimo sale grosso, si riuscirà ad eliminare gran parte dei residui di paglia, feci e sangue.
A questo punto è necessario lavarlo ripetutamente sotto l’acqua corrente, alternando questo procedimento con nuove, energiche frizioni di sale.
Quando sembrerà pulito bisognerà ancora ammollarlo in una vasca (in dialetto “ù galettòne”) piena di acqua tiepida, avendo cura di sostituirla almeno una decina di volte, finché non sarà perfettamente limpida.
Finalmente, dopo tutto questo lavoro, il prodotto, ormai igienizzato, verrà messo a lessare con limone e foglie d’alloro dentro una capace pentola, senza aggiunta di acqua, dato che ne caccerà di sua. Al calore vivo si restringerà e, quando si sarà arricciato, bisognerà eliminare tutta l’acqua adagiandolo in uno scolapasta, tenendolo lì per circa un quarto d’ora. Con un buon coltello bisognerà ritagliare dei rettangoli delle dimensioni di una carta da gioco, grigliarli bene su brace di legna, salarli abbondantemente, farne piccoli pezzi e mangiarli ancora caldi.
”Come le caramelle” ricordo che mi disse sorridendo Chiara. Si possono cucinare anche con il sugo di pomodoro e, in questo caso, bisognerà inserire nei rettangoli ottenuti una nocciola di pecorino romano, prezzemolo, pancetta, sale, abbondanti aglio e pepe nero.
Dopo averli arrotolati e chiusi con del filo da cucito, si preparerà un soffritto con olio extra vergine d’oliva e aglio. Vanno quindi adagiati nella casseruola e fatti rosolare bene, prima di aggiungere la passata di pomodoro e far cuocere il tutto a fuoco lento dalle quattro alle cinque ore, per ottenere una salsa corposa, da regolare di sale. Completata la cottura, si verseranno, con il loro sugo, in piatti fondi, per gustarle insieme a del pane casereccio. Se piace, si può aggiungere peperoncino tritato e/o la “ricotta forte”.
Ovviamente, per ovvi motivi, la pulizia prima della cottura sarà fondamentale e, ormai, a causa di questa laboriosità solo in pochi si avventurano nel lungo e complesso procedimento.
Se avete superato la naturale repulsione all’assaggio e la curiosità avrà preso il sopravvento, potreste intrufolarvi nei vicoli della città vecchia, dove la tradizione è ancora viva ed è possibile che qualche anziana signora ve le faccia assaggiare arrostite, consegnandovele ancora calde in un involto di carta da macellaio.
A proposito, a Bari, quando si vuole mandare “a quel paese” qualcuno si usa dire in dialetto proprio “và lave le ciòle”.
Non mi pare necessario tradurre, sono certo che avete capito!
Photo credits: Giuseppe Antonacci