Tra tradizione e innovazione. Splendida location. Meravigliosa cornice. Showcooking. Appena leggo questi termini in un articolo smetto immediatamente di leggerlo. Sono – secondo me, per carità – quei modi di scrivere che fanno capire immediatamente la scarsa qualità e la pochezza dei contenuti. Non c’è dubbio, purtroppo, che siano universalmente usati, soprattutto da chi scrive tanto per farlo, per riempire un foglio o una pagina di giornale. Capisco che la standardizzazione dei contenuti possa corrispondere a velocità, perché scrivere un articolo non sempre viene visto dall’autore come una piccola opera, nella quale ciò che si deve essere capaci di creare è, in quelle poche righe, un rapporto tra scrittore e lettore. Ci sono regole che vanno rispettate per creare un buon pezzo da pubblicare e, per quanto mi riguarda, la prima regola è chiedersi se l’argomento può essere di interesse o se serve soltanto a riempire gli spazi di un giornale.
In campo gastronomico, che è quello nell’ambito del quale mi muovo con maggiore disinvoltura, è molto frequente imbattersi in articoli pieni zeppi dei termini appena citati, e tante altre sono le cattive abitudini di chi scrive, spesso legate anche alla scarsa conoscenza degli argomenti. Vere e proprie banalità come “vale il viaggio”, “ingredienti d’eccellenza”, “esperienza mozzafiato”, sono all’ordine del giorno negli articoli di gastronomia. E poi ci sono gli errori sui nomi dei piatti. La brasciòla, tipico involtino di carne pugliese, spesso diventa braciola, bragiuola o, peggio, bragiuoletta. La ciallèdda viene italianizzata male e chiamata cialda, che è tutt’altra cosa, l’ovetto sbattuto della mattina diventa zabaione, preparazione totalmente diversa. C’è poi l’abuso di termini senza senso, come bottarga di uovo, riferita alle scaglie di uovo marinato, caviale di aceto balsamico, quando si parla di sferificazione, crumble di pane o altro quando si tratta di ingredienti sbriciolati.
Ma davvero è necessario usare questo modo di scrivere? Domandiamocelo.
A Bari poi, ogni cosa rosolata o bruciacchiata diventa all’assassina, erroneamente, perché è stato ben spiegato, dallo stesso inventore del piatto e da noi riportato anche su questo giornale, che quel termine si riferisce alla piccantezza e non alla bruciatura che, oltretutto, soprattutto se eccessivamente spinta, è un pesante attentato alla salute di chi la mangia, a causa della produzione di acrilammide, sostanza universalmente riconosciuta come cancerogena. Parlando dello stesso argomento, negli innumerevoli articoli che lo riguardano e pure su noti magazine, si utilizzerebbe un fantomatico brodo di pomodoro, diluendo semplicemente il concentrato con l’acqua ed ignorando le basi della cucina, che per brodo intendono tutt’altra preparazione. Eppure, se questi errori vengono fatti da chi non ha competenze specifiche, finiscono per passare inosservate persino ai professionisti! Altro palese errore è la declinazione dei piatti al singolare. Spaghetto, tagliolino, cavatello, fettuccina, linguina…
Al ristorante vi è mai stato servito un solo cavatello o una sola orecchietta?
“Signore – dice il cameriere – oggi abbiamo un ottimo spaghetto ai frutti di mare, glielo faccio preparare?”
Chissà perché, inoltre, nello stesso piatto sembrerebbe esserci un solo spaghetto ma tanti frutti di mare. “È più elegante – mi rispose un giorno un noto blogger barese – molto più figo!”
Ma – sostengo io – scrivere correttamente in italiano non è ancora più figo?
Oppure se proprio abbiamo deciso di scrivere male, chiamiamolo spaghetto al frutto di mare, così ci mettiamo l’anima in pace e capiamo subito che c’è un solo pezzo di pasta e una sola vongola. Un altro modo di descrivere i piatti che trovo alquanto inelegante è quando si utilizza l’articolo, che appare frequentemente soprattutto nei menù delle sale ricevimenti, quasi a voler far sembrare la cosa, appunto, più elegante. Nomi di piatti preceduti dall’articolo determinativo si leggono frequentemente nei menù: il filetto al pepe, l’anatra al forno, il dentice all’acquapazza, la melanzana laccata, la scaloppina al marsala, il salmone cbt. Boh, non si capisce proprio perché si creino così facilmente certe consuetudini, Appena le usa qualcuno, sbagliando, tutti dietro a seguire e, così, gira gira diventano quasi delle regole.
Caso emblematico è quello delle dimostrazioni di cucina dal vivo. Detto o scritto così, in italiano, pare brutto, o almeno così sembra. E allora stravolgendo la lingua inglese, che vorrebbe l’utilizzo del termine cooking show o ancor meglio cooking demo, noi Italiani, siamo stati capaci di creare il neologismo show cooking o addirittura showcooking, tutto attaccato, molto più utilizzati del termine corretto. Pensate, è riportato persino sulla Treccani, l’ho scoperto qualche giorno fa discutendo con un amico che mi ha dimostrato, appunto, l’ormai riconosciuta omologazione del termine che, se detto ad un Inglese, scatenerebbe un’anglosassone indignazione o quanto meno una fragorosa risata.
Ma – si sa – noi Italiani siamo da sempre considerati “popolo di santi, poeti, artisti, eroi, pensatori, scienziati e trasmigatori”.
Pure questa frase, estrapolata da un discorso di Benito Mussolini nel 1935 quando stava per iniziare la guerra d’Etiopia, è stata trasformata a nostro piacimento, in quanto quella completa parlava di eroi, santi, poeti, artisti, navigatori, trasmigratori e colonizzatori. E, utilizzando “show cooking” siamo stati capaci persino di colonizzare la lingua inglese, ma tant’è e dobbiamo accettarlo. A questo punto, neppure possiamo più parlare di errore, anche se mi piacerebbe tanto sapere cosa ne pensa l’Accademia della Crusca. Ah, a proposito, le Accademie…soprattutto quelle del cibo.
Altro argomento spinoso, quante sono quelle legalmente riconosciute dal Miur, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca? Vabbè lasciamo perdere che è meglio, perché sono un numero davvero enorme, lascio a voi lettori il compito di informarvi quando vi imbattete, come sarà capitato un po’ a tutti, in un’accademia, cosiddetta. E l’usatissima frase “vale il viaggio”? Un capolavoro di banalità riscontrabile continuamente negli articoli che parlano di ristoranti. Mi rivolgo, quindi, ai colleghi giornalisti, a coloro che si spacciano per esserlo, ai blogger e a coloro che comunque scrivono da qualche parte, vogliamo impegnarci ed essere un po’ meno banali o, quanto meno standard in ciò che pubblichiamo?
Purtroppo so già che rimarrò inascoltato e che questo articolo avrà l’effetto di una goccia nel mare, ma io sentivo di dirlo e, come sempre, l’ho fatto, senza sovrastrutture, preconcetti e in tutta sincerità. Ah già, dimenticavo, ora c’è persino l’AI, sistema capace di trasformare persino chi a scuola prendeva 2 in italiano e la professoressa gli ricamava di segni rossi il compito in classe. Quelli che, se gli chiedi cos’è il congiuntivo, ti risponde che è un problema risolvibile mettendo le goccine di collirio negli occhi.


