Trònere di Turi: la vera ricetta di un piatto riconosciuto con marchio collettivo dal Ministero del Made in Italy

All’indomani del mio articolo nella mia rubrica su Pugliosità del 19 dicembre 2024 riguardante quella meraviglia della cucina tradizionale di Turi che sono i trònere, sono stato contattato dal presidente dell’Associazione Trònere di Turi che ha ritenuto opportuno fare alcune garbate precisazioni sull’argomento. Ho incontrato, quindi, Stefano De Carolis e, insieme allo chef autoctono Onofrio Squeo, patron del ristorante Magno, i trònere li abbiamo preparati, degustati e, soprattutto, abbiamo potuto dissipare alcuni dubbi e rivedere alcune imprecisioni.

Amo la buona divulgazione della storia e delle tradizioni gastronomiche, motivo per cui è sempre un piacere, per me, poter contribuire alla creazione di contenuti che possono diventare, sia oggi che nel tempo, riferimenti importanti per la cucina della nostra splendida Puglia. Non sempre è facile, più volte ho denunciato l’ignoranza e presunzione che gira nell’ambiente della cucina, uno di quegli argomenti di cui tutti pensano di poter parlare con competenza, al pari forse del calcio e della politica. La realtà, purtroppo, non è questa e per farlo bene è necessario studiare senza sosta, affidarsi a serie ricerche e selezionare con attenzione i contenuti diffusi frettolosamente da blogger, cronisti e disattenti o, peggio, presuntuosi sedicenti esperti. A volte nascono persino “accademie” (virgolette e “a” minuscola sono d’obbligo) autoconfezionate, come quella di Bari che si occuperebbe della ricetta degli spaghetti all’assassina, ma che divulga informazioni lontane dalla vera ricetta e dalla storia documentata.

Una vera Accademia (ecco, ho usato la A maiuscola) deve essere riconosciuta dal Ministero dell’Università e della Ricerca, cosa che consente a tali organismi di svolgere attività di formazione e informazione. In realtà, troppo spesso, si tratta di associazioni di appassionati che partono con buone intenzioni goliardiche ma poi finiscono per smarrire la strada e non avere l’umiltà di riconoscere i propri errori, appropriandosi di false verità che, grazie alla superficialità di molti disattenti divulgatori, finiscono per diffondersi a macchia d’olio recando danno al patrimonio culturale gastronomico italiano.

Per fortuna esistono enti che si occupano di certificare anche la storia di un piatto ed esiste un elenco, in continuo aggiornamento, dei Prodotti Agroalimetari Tradizionali a cura delle Regioni. Ad esempio chi si sta occupando del riconoscimento P.A.T. per gli spaghetti all’assassina è l’Università di Bari, che ha trasmesso la documentazione storica alla Regione, la quale a sua volta, se ci sono requisiti e documenti almeno di 30 anni addietro, chiederà la certificazione al Ministero.

Tutto ciò premesso, ben venga, quindi, chi si muove nell’ambito della ricerca storica con attenzione e rispetto e, quindi, è necessario, in seguito all’attribuzione del marchio collettivo “Trònere di Turi” da parte del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, procedere a darne la ricetta precisa.

“Per prima cosa elenchiamo gli ingredienti – precisa Stefano De Carolis – che sono una fetta di carne bovina di 250/300 grammi, ventresca fresca di maiale, provolone dolce o semipiccante, formaggio canestrato pugliese grattugiato, peperoncino, sale, pepe, cipolla, pomodori e prezzemolo.

Il Ministero ci ha chiesto di inserire la provenienza dei prodotti che sono tutti pugliesi, mentre le carni devono essere necessariamente italiane”. 

Lo chef Squeo, in mia presenza, li ha preparati mettendo nel “tiano” (dal dialetto u tiàne = tegame) di terracotta realizzato nella vicina Rutigliano dal maestro Antonio Samarelli.

 

Per prima cosa ha insaporito con sale, pepe e peperoncino una bella grande fetta di reale di bovino adulto, sulla quale ha appoggiato due fette di ventresca fresca, una spolverata di canestrato, un pezzetto di provolone e un pizzico di peperoncino. Poi l’ha chiusa, prima sovrapponendo la carne dalla parte più larga in modo da ricoprire completamente il ripieno e ha, poi, arrotolato il tutto partendo dalla parte opposta, in modo da formare un grosso involto.

Poi è passato a mettere un filo d’olio nel tegame, tanta cipolla bianca a fette, e ha poggiato su di essa il trònere, facendo attenzione a metterlo con la parte della chiusura rivolta verso il basso.

“Per far sì – spiega Squeo – che in cottura la carne si saldi e non perda il suo prezioso ripieno”. 

“Quindi – precisa invece De Carolis – nessuno stecchino né filo per la chiusura, non è necessario e non si usava farlo. Inoltre l’olio deve essere pochissimo, i vecchi a cui ho chiesto testimonianze su questo piatto mi hanno spiegato che, essendo un piatto dalle origini povere in cui anticamente si utilizzava persino carne di terza/quarta scelta, l’olio extravergine era un elemento troppo costoso e si usava con parsimonia, perché un litro arrivava addirittura ad essere la paga di un’intera giornata di lavoro nei campi. Non si usava neppure la salsa, che era destinata ai ragù della domenica, perché troppo pregiata, mentre erano sempre disponibili i pomodori, specialmente quelli al filo nella stagione fredda”. 

Gli chiedo inoltre, il perché della ventresca, in quanto precedentemente avevo letto di una ricetta con la mortadella.

“Perché i trònere si facevano con gli ingredienti disponibili in casa e la pancetta era di facile reperibilità oltre che molto economica. In quegli anni la mortadella era un lusso. Addirittura c’è chi ha avuto il coraggio di portare in un programma a TeleNorba una ricetta con il lardo di Colonnata!”

Come dargli torto?  Il lardo di Colonnata in Puglia? Mah…

Chef Squeo ha poi ricoperto completamente i trònere con altra abbondante cipolla, ancora pomodorini, una manciata di canestrato grattugiato e un altro timido filino d’olio, in modo da creare una sorta di camera umida dentro la quale farli cuocere lentamente. Ha chiuso tutto con il coperchio e portato nel forno a legna, nel quale i trònere di Turi devono cuocere dalle 5 alle 7 ore.

“Infatti – prosegue De Carolis – qualche pizzaiolo che li prepara utilizza il calore finale del forno spento tenendoli in cottura a bassa temperatura per tutta la notte. Quella è la cottura perfetta, al mattino sono pronti e cotti sempre al punto giusto”.

Ma per noi, ovviamente, lo chef li aveva già preparati, mica potevo stare lì 7 ore!

E così ce li ha serviti belli caldi caldi, così ora tocca a me dire cosa ne penso dopo averli assaggiati.

La verità? Penso che siano davvero eccezionali. Prima di tutto il profumo, che è intenso ma delicato, e io adoro la cipolla quando, cuocendo, rilascia i suoi zuccheri naturali e i suoi aromi. Alla vista, secondo i canoni della cucina spettacolo dei social e dei programmi televisivi, quella fotografata ed esibita, forse potremmo definirlo un piatto non particolarmente bello esteticamente. Eppure lo chef è riuscito a farne persino un impiattamento originale, neppure necessario, secondo me, trattandosi di un piatto dalle radici antiche, ma al quale ha voluto dare il suo tocco di modernità estetica.

Questo, per me, è sempre un aspetto che preferisco bypassare, per riprenderlo poi dopo l’assaggio, ma solo se gradito.

E ora la sentenza.

Dire spettacolare è poco. Servito nel suo copioso condimento di cipolla non è stato necessario neppure ricorrere al coltello, è bastata la forchetta, tanto era morbida la carne e si sfaldava al solo tocco mescolandosi con la cremosità della cipolla. Eppure per tagliarlo sarebbe stato sufficiente persino un grissino, come recitava una vecchia pubblicità di un famoso tonno in scatola. Poi, all’assaggio, un’esplosione di gusto che non si può non accompagnare con dell’ottimo pane casereccio, meglio se di semola con la mollica bella compatta, tipo Laterza o Altamura, da intingere nel saporito sughetto. Ne mangi uno e stai a posto, è bello sostanzioso, ma vi posso assicurare che per golosità ne avrei mangiato volentieri anche un altro. Con quel condimento sempre abbondante, volendo, potete anche condirci le orecchiette, perché, insaporito dagli umori rilasciati dalla carne, diventa una sorta di sugo alla genovese.

Strepitoso davvero. Chi sono io per dirlo? Forse nessuno, a parte un po’ di anni di studi e di esperienza in vari angoli della Terra, ma credetemi sulla parola e venite a Turi, cercate un locale che si fregia del marchio collettivo – gli aderenti sono già in tanti quelli e in continua crescita – e assaggiateli. Mi ringrazierete per il consiglio. Intanto, se qualcuno ha da portare ulteriori prove e testimonianze sull’argomento trònere, io e Pugliosità siamo pronti ad offrire nuovi spunti per contribuire alla sana e corretta divulgazione di questo prodotto tradizionale, tutto sommato ancora poco conosciuto, nato dall’ingegno in cucina dei nostri avi.

In sintesi, cari amici turesi, se avete una nonna, conoscete un cuoco anziano o custodite un ricettario di famiglia che parli della ricetta, trasformatevi in novelli Sherlock Holmes, investigate, recuperate ogni cosa possa tornare utile alla corretta divulgazione e fatecelo sapere. Perché il termine “tradizione” deriva dal latino “tradĕre” e significa trasmettere, consegnare; pertanto, anche nella cucina, chi se ne occupa seriamente ha il sacrosanto dovere di trasmettere alle generazioni future memorie, notizie, testimonianze, consuetudini, usi e costumi. Solo se autentici.

 

 

 

 

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