Il pane è oro. Lo dice nel titolo di uno dei suoi libri il famoso chef Massimo Bottura, ma è una verità assoluta. Oggi si è tornati a parlare di cucina del recupero, però, in passato, quando non c’era tutto questo benessere, lo spreco non era proprio contemplato. Si recuperava tutto ciò che si poteva, a tutto ciò che era commestibile si dava una nuova vita inventandosi ricette povere ma gustose, mentre gli scarti che non si potevano mangiare venivano utilizzati per altro. Al centro di questa apprezzabilissima cultura del recupero, il protagonista assoluto è, da sempre, il pane.
Una volta si preparava in casa e si portava nei forni di comunità una volta alla settimana, facendolo sempre di grande pezzatura perché il costo del servizio di cottura era calcolato a pezzo e non a peso. Pertanto quei pani dovevano durare, appunto, almeno una settimana cambiando gusto e consistenza giorno per giorno. Appena sfornato era una gioia sentirne il profumo e apprezzarne la fragranza, poi man mano la crosta diventava meno croccante e la mollica perdeva morbidezza acquistando maggiore consistenza.
Le donne di casa sapevano sempre come utilizzarlo e così sono nati piatti come i vari pancotti, le bruschette, alcune zuppe, i ripieni di pesce e carni fino alla realizzazione del pangrattato, prezioso per le gratinature e per le panature. Insomma buttare il pane era davvero impensabile, un peccato che non si poteva e non si doveva fare. Sin da piccolo ho apprezzato la bontà del pane fresco e ne mangiavo tantissimo, soprattutto quando, sfornato da poco, arrivava caldo e fragrante.
In casa mia il pane non si faceva, i miei nonni lo compravano e, quindi, appena arrivava il pacchetto di carta con dentro le pagnotte, i filoni o le rosette, io ci tuffavo dentro le mani e ne staccavo bei pezzetti. Però, ogni giorno, quel pane si accumulava e, lo ricordo come fosse ieri, mia nonna lo conservava sulla placca del forno spento.
Si accumulavano così gli avanzi che, nel tempo, si seccavano e venivano trasformati, appunto nel pane grattugiato, che si preparava con la “grattaròle” (grattugia) del formaggio, quella metallica di forma tonda con la parte alta bucherellata e sotto il contenitore. Mia nonna Maria si sedeva, se la metteva in grembo tenendola forte con la mano sinistra, mentre con l’altra strofinava il pane sulla zigrinatura per grattugiarlo. Ma quel pane, una volta diventato secco, aveva anche un altro utilizzo che a me piaceva tantissimo: il pane olio e sale. Capitava che, la sera, non ci fosse un granché di pronto da mangiare e così mia nonna tirava fuori dal cilindro l’idea per sfamare tutti e contemporaneamente utilizzare tutto il pane accumulato. Bastava bagnarlo in acqua fredda, poi metterlo in un grande vassoio, condirlo con olio buono abbondante, qualche pomodoro spiaccicato sopra, sale, pepe e una bella spolverata d’origano secco. Semplice, ma andava a ruba e devo ammettere che era davvero buono.
Un mesetto fa una coppia di amici mi ha portato un bel pezzo di quel pane pazzesco che fa il mitico Angelo Di Biccari, detto Trilussa, a Orsara di Puglia nel suo forno a paglia del 1526. Ogni giorno l’ho utilizzato finché non mi sono rimasti alcuni pezzi ormai secchi al punto da non poterli neppure più tagliare con il coltello. Così ho avuto l’idea di fare il pane olio e sale ripensando a quelle sere con tutta la mia famiglia e mia nonna che ce lo preparava. E mentre lo bagnavo, mi sono detto: “Lo fotografo e ci faccio pure un articolo, perché a questi piatti ormai non ci pensa più nessuno!”


