Scapece Gallipolina: storia e ricetta di un piatto dalle antiche origini

Qualche giorno addietro, come mi capita per ragioni più anagrafiche che storiche abbiamo tenuto una specie di MasterClass sulla “Scapece Gallipolina!” Lo Chef Gianluca Parata (Gallipolino) la ha preparata appositamente secondo le regole gallipoline. E, visto che il pard della serata era Sergio D’Oria, adottato(re) di Otranto, abbiamo ampliato alla scapece del basso Adriatico. Come sempre, quando si parla di cucina e di ricette storiche, una dissennata ricerca su “chi è stato il primo” si scatena. Quasi che conoscendo l’origine si abbia la primogenitura e, dunque, si possano riscuotere i diritti. Quando poi si scopre un origine che va contro le proprie aspettative o contro i propri pregiudizi, spesso si accampano ipotesi strampalate, volte più a cercare le proprie ragioni che il fondamento di verità. Promisi in pubblico che avrei provato a enucleare in forma didascalica la situazione e sono qui per mantenere la promessa.

La prima ipotesi riguarda l’etimologia della parola che alcuni, per ragioni inspiegabili, fa risalire a Marco Gavio Apicio (ex-apicii, o esca apicii). La quistione si risolve rapidamente. Il Primo Libro al Cap. IX riporta quanto segue: «UT PISCES FRICTI DIU DURENT: “Eodem momento quo friguntur et leuantur ab aceto calido perfunduntur”. Apicio spiega soltanto come usare l’aceto come strumento di conservazione del pesce fritto. Si aggiunga che Marco Gavio Apicio dilapida una fortuna (milioni di sesterzi) per preparare le sue ricette per ricchi e ricchissimi, con pietanze ricchissime di ingredienti preziosi per quel tempo. Il paragrafo secondo del capitolo sopra citato recita: «OSTREA UT DIU DURENT: “<Lavuas ab aceto, aut ex aceto uasculum picitum laua, et ostrea compone.” Ovvero lava con aceto le ostriche per conservarle più di un giorno. E di scapece di ostrioche non si ha notizia alcuna. Ormai è universalmente accettato che il termine deriva dall’arabo al-sikbāj, che indica un piatto di carne stufata con l’aceto.

La storia inizia a metà del VI secolo in Persia. Khosrau I Anushirran (501-579 DC) era lo Shahanshah (“re dei re”) dell’impero persiano sasanide. L’impero, che si estendeva dall’attuale Armenia, Turchia e Siria a ovest, attraverso Iran e Iraq in parti del Pakistan a est. Fu un periodo meraviglioso della civiltà persiana. La capitale, Ctesifonte, sulle rive del Tigri in Mesopotamia, era probabilmente la città più grande del mondo all’epoca, È famosa per i suoi murales e un centro di musica, poesia e arte. Platone e Aristotele furono tradotti in persiano qui, e gli scacchi furono introdotti dall’India. La Persia era al centro dell’economia globale, esportando le proprie perle e tessuti, rivela all’Europa carta e seta e spezie indiane. I murales sono tutti spariti ora, ma alcune delle rovine di Ctesifonte rimangono come testimonianza.

Jan Durafsky cita un mercante ebreo, Isaac bin Yehuda, che tornando in Oman recò in dono al sovrano un vaso di porcellana nera pieno di pesci d’oro: «Ti ho portato un piatto di sikbāj dalla Cina», avrebbe detto. Siamo nel secolo X (precisamente nel 912 d.c)

Tuttavia la prima ricetta di pesce preparata in agrodolce risale a qualche secolo dopo, il XIII, arriva dall’Egitto e prevede sia la frittura dell’alimento sia la sua successiva cottura e conservazione in un composto a base di aceto e spezie. Il paradosso è che il giro cambia verso. Non è l’escabeche spagnolo che genera lo schibecciu sicilioano,la scapece napoletana e lo scabeccio ligure ma esattamente il contrario. Comunque sia, tra commerci, invasioni e regali la cucina con l’aceto si diffonde e diventa tante cose. Anche Scapèce. E perfino Ceviche e aspic. E, dunque, scapeciare significa semplicemente cuocere usando l’aceto.

E dunque volendo targare la prima ricetta di cottura del pesce con aceto, bisogna ricorrere alla Letteratura Egizia del XIII-simo secolo. E, paradossalmente, è proprio pesce fritto (in olio di sesamo) e aromatizzato con lo zafferano, documentato in “Medieval Cuisine of the Islamic World” di Lilia Zaouali. Ho riportato il paragrafo precedente per invitare all’approfondimento e anche come una forma velenosa di manifestazione erudita. Però è ora di smetterla con l’onanismo paraculturale e venire direttamente al dunque.

La Scapèce di Gallipoli si fa esclusivamente con quattro ingredienti: pesce fresco, pane raffermo, aceto bianco e zafferano. Ovviamente farina e olio di oliva per friggere. Il resto, quand’anche dovessero raggiungersi risultati similari è taroccatura o “scapece d’altro luogo”.

Il pane raffermo si deve grattugiare con la “rattacasu” che sarebbe un cilindro metallica forato con delle asperità e dei fori grossolani usata anche per il formaggio “cresciuto”. Le storpiature “grattacasa” o la mollica bagnata sono orridi. Il pane deve essere tritato ma non polverizzato. L’aceto è rigorosamente bianco (diluito e ingentilito “secondo la mano”, si narra che si usassero dei filtri di farina e crusca in calze di lana per filtrare gli aceti scuri e ingentilirli in qualche modo.

Lo zafferano è ESSENZIALE poiché questo cibo era destinato per essere portato a bordo delle navi e lo zafferano per il suo colossale contenuto di betacarotenoidi e di vitamine contribuiva a chi stava in mare a lungo di evitare l’insorgere dello scorbuto. Ad usum dei moderni amanti delle tabelle nutrizionali, crocetina, α-crocina, picrocrocina e safranale sono tutti assorbibili dal corpo umano. Alcuni fra i succedanei usati (curcuma), danno il colore medesimo (o quasi) però contengono altri principi attivi, magari curcumina. Eccellente sostanza per la salute umana ma pur essendo eccellente per la salute, è presente nella curcuma in dosi molto piccole e può essere assunta solo sciogliendola con il grasso e abbinandola al pepe (piperina).  La scapèce ben preparata (almeno due settimane di maturazione) di grasso ne ha veramente pochino.

Del pesce della scapèce gallipolina ne parleremo alla prossima puntata, anticipo solo che la migliore scapèce non è quella delle feste patronale ma quella di Natale e per prepararla si pesca il pesce intorno all’Immacolata. E, nel frattempo, vedremo anche la versione Basso Adriatico di questo piatto semplicemente da Re. Che anche per il pesce si narrano approssimazioni e, talvolta, ipotesi strampalate, ma ormai, dopo aver letto di “alici alla scapece” e di pesci che “si friggono e poi si infarinano” non ho più meraviglia di nulla.

Foto credit per la copertina: Giorgio D’Aria @giorgio_daria_photography

 

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