Più volte ho affermato di essere un amante di frattaglie e quinto quarto, ma abitualmente si tende a parlare di quelle degli animali terrestri e non del mare. In realtà, invece, ci sono anche quelle di pesce, di gusto molto hard ma che, utilizzate nel modo giusto, sono buonissime.
Chi acquista seppie fresche, ad esempio, se è un vero intenditore si farà consegnare anche le interiora contenute nella testa del cefalopode. La sacca del nero – si sa – viene usata per risotti e spaghettate, ma, se si tratta di una femmina, può essere che ci siano anche le gelatinose uova che si possono usare per arricchire delle tartine, oppure le gonadi, che i pescatori chiamano “menne”e che fritte sono una vera golosità. Personalmente adoro il fegato, che, se cotto, assume una consistenza cremosa tipo paté e un gusto intenso e ferroso. Negli allievi, quelli che i Baresi amano mangiare crudi, il fegato non viene tolto proprio per rinforzare il potente gusto di mare, che all’assaggio deflagra nella bocca. Un’altra frattaglia gustosissima ma difficile da reperire è il fegato di rana pescatrice, che ho cucinato come un fegato alla veneziana, cioè in padella con olio e molta cipolla.

Alcuni giorni fa, invece, leggendo l’articolo del mio amico gastronomo Pino De Luca proprio qui su Pugliosità, mi sono ricordato degli stomaci di cefalo mangiati alcuni mesi fa a Lesina. Sempre a Lesina in tanti preparano le bottarghe con le sacche ovariche del cefalo, usanza che i più riconoscono alla Sardegna, ma che nella cittadina lagunare si fa da secoli in quasi ogni famiglia locale e fa parte della particolare offerta gastronomica di quelle zone.

Ma poi mi viene in mente mia nonna Maria, e pure mia madre Lia, che quando acquistavano i polpi appena pescati, ne svuotavano la testa per recuperare le “malàndre”. Si tratta di tutte le interiora del polpo e non come erroneamente si trova in quasi tutti gli articoli presenti in rete, del solo fegato del polpo. Infatti nella sacca della testa ci sono tutti i vari organi: cuore, branchie, stomaco, sacca dell’inchiostro, rene e, vicino agli occhi, il particolare cervello. Invece, persino in una puntata di Masterchef si è parlato di malàndre in quanto fegato del polpo, che è effettivamente la parte più grossa, cioè una palla violacea traslucida attaccata alla sacca del nero.
Nella mia vita da subacqueo mi è capitato di eviscerarne tanti e, mentre ora è difficilissimo trovare in pescheria o nei mercati i polpi con tutte le interiora, una volta non era così, anzi si lasciavano sporchi proprio perché, ovviamente, pesano di più. I Baresi le “malàndre le hanno sempre mangiate e mia nonna le preparava fritte, passandole nella farina per poi friggerle schiacciando la sacca dell’inchiostro che, a differenza della seppia, è marrone e non nero. Ne viene fuori un piatto pazzesco, bruttissimo da vedere ma dall’intenso sapore di mare, da accompagnare con un ottimo pane casereccio.
Delle malàndre ne ha parlato anche il grande storico e demologo Alfredo Giovine sulla Gazzetta del Mezzogiorno nel 1986. Ne riporto la sua trascrizione originale in dialetto:
Se pìgghiene quande a nu mìinze rète (mezzo chilo circa) de malandre (ghiandole del nero) de pulpe de scoglie de n-dèrr’a la lanze. Hann’a ièsse frèscke e pecenònne percè quande cchiù pecenònne sò, iàvene cchiù amore (sapore).
Ce l’acchiàte mesckate da ngocch’e varcheceddàre (pescatore con la barchetta) capadle – si scrive anche capadele – (sceglietele). E cce ssò tutte menetèdde (piccoline) facite nu muzze (ad occhio, senza pesare) acchesì sparaggnàte (risparmiate).
Se lavene bbèlle bbèlle iìnd’a nu comete (recipiente adatto) sott’o rebenètte e s’ambarèscene (si infarinano) mbrescenànele (girandole e rigirandole) iìnd’a la farine.
Pò se schedeuèscene (si scuotono) acchesì la farine sevèrchie (superflua) se ne cate e se friscene iìnd’a na bbèlla fresore cu u-ègghie d’auuì de le vanne noste. Tenite u penzìire de no ffalle abbrescià e mangiatavìlle frevute (calde) acchesì sendite m-mocche u-addòre du mare.
Ce probbete v’avèssere avanzà dù dù (pochi) astepàdle – o “astepàdele” – pe la sère percè come spengetùre azzècchene (come companatico sono indicate).
Sope azzeppàdece (bevete) nu becchierùzze de cudde berefatte (vino generoso).
In pratica è esattamente la ricetta che faceva mia nonna e che ho già decritto, ma le malàndre sono utilizzabili in tanti modi e trovo siano ottime anche con la pasta. Per questo motivo, dopo aver pescato un polpo, ho provato le sue freschissime interiora per realizzare un piatto che mi ha dato tanta soddisfazione. Lascio qui la ricetta, se per caso volete provare a cimentarvi nella preparazione.

Ho leggermente infarinato le malàndre e, dopo averle spadellate in poco olio, le ho frullate, ricavando una gustosa salsina. Ho preparato anche dei pomodorini messi nel forno con olio e aglio e ricavato minuscoli cubetti da un pezzo di focaccia avanzata, che ho tostato come si fa con il pane raffermo. Come pasta ho utilizzato le orecchiette e le ho condite con la salsina, i pomodorini e dei capperi, poi ho completato il piatto con zest di limone per dare freschezza e le briciole di focaccia tostate per una piacevole croccantezza. Vi assicuro che è una bomba, ma ovviamente devono piacervi i gusti un po’ forti.

Foto credit: Sandro Romano