Domenica, domenica di inizio giugno. Fa caldo. Molto caldo. Circostanze troppo lunghe e poco interessanti ci consegnano alla solitudine. Poi finalmente ci si accorge che non si è soli nella solitudine e che è ora di rivedersi, di far finta che la gara sia: arrivare in salute al gran finale, e ci si da appuntamento a Gallipoli, alla spiaggia della Purità, ma niente battigia né costume, ci si ferma, con un parcheggio azzardato, sul bastione: Santa Monaca si chiama. E la storia di Santa Monaca non si può scrivere, è obbligatorio che sia raccontata a voce. Ma di ciò che Santa Monaca ti fa vivere è invece oggetto di descrizione calligrafica. E già, a Kelé Polis bisognerebbe abbinare Kalé graphos, ma il tempo moderno non ama fermarsi sul bello, tutto distrugge e tutto consuma. E, possibilmente, dovunque uguale, come i font standard. Quando gli onirici si son raggrumati, una donna dal sorriso che mette in ombra il sole di Gallipoli (si chiama Silvia), ci accoglie come si accolgono le persone: menù, carta dei vini, acqua fresca (che il sole è davvero tosto) e si mette in attesa delle scelte dei clienti.
La confusione prende posto al centrotavola, Franco I mi assegna quello in solitaria tra Franco IV, la Regina Madre e il Delfino. Tranne la Principessa Grace che si relega al sarago ai ferri con insalata, le gran Dame e tutti gli altri appartengono alla grande famiglia onirica del “rifuggire lo scontato”.
Silvia ha bel sorriso e occhi vispi, storia e cultura non esibite ma percettibile. Capisce tutto e quel caos iniziale si manifesta con una sequenza di incanti che basterebbero la metà. Decidiamo di principiare con un moscato (secco) fresco che la bottiglia vola senza nemmeno il rumore del decollo, quando compare la mia triglia tra crudo e cotto parte financo la seconda bottiglia.
Poi un piatto di mussoli rossicci, che con un calice di rosato brillante come il sorriso di Silvia possono sfidare qualunque plateau di ostriche e champagne … E un primo piatto di mini paccheri con un brodetto di tracina (da un chilo) e scorfano nero (di pari stazza) che possono competere con il più erotico dei sogni.
Il resto, colorato di crostini di pane con la “melana” del polpo, la palamita quasi cruda, e la linguina di mare con la salicornia, lo cito solo per dovere di cronaca. Che ad ognuno andrebbe dedicato un capitolo. Ma lo spazio è breve e, finalmente, Jonathan (marito di Silvia e cuoco della Santa Monaca) appare e si capisce tutto. Immediatamente.
Mbà Pié (da noi vanno più i soprannomi che i nomi di battesimo) viene dal mare, dalla cucina di Gallipoli VERA e, per sopravvivere, deve indossare i panni di “ciò che richiede il mercato”, una specie di cintura di castità che ti impone le cose che si trovano su ogni menù, ma se lo lasci libero di fare quello che sa fare, con il frutto che il mare gli ha consegnato, ti restituisce bellezza e racconto senza la minima narrazione. Che noi siamo la terra de “li cunti” e le “narrazioni” ci fanno lo stesso effetto della tartar di salmone! Mbà Pié ha tante cose da raccontare e gli ho promesso che voglio ascoltarne il maggior numero possibile, e magari anche qualcosa border line viene fuori, qualcosa che riguarda ad esempio il lattume di tonno o il fegato della coda di rospo se è abbastanza cresciuta. Se passate da Santa Monaca fatevi dire la preghiera e poi lasciate liberi i coniugi e lo staff di farvi sognare.
Per chiudere abbiamo bevuto un bel rosso di negroamaro giovane e focoso. Ovviamente non vi dico l’etichetta ma se passate da Silvia ditele: voglio bere quello che ha bevuto lo zio Pino e lei vi farà trascorrere due ore di grande felicità (e senza costringervi a fare un mutuo o a vendere un rene). Se volete cibarvi del comune va bene lo stesso, mangiare si mangia. Ma sognare è un’altra cosa.