A Bari il Junk food crea dipendenza e business

L’argomento di oggi mi sta a cuore. Ma scotta, lo so. Niente ricette, niente storia della cucina pugliese, niente disquisizioni su materie prime. Perlomeno non in maniera diretta, anche se poi questi argomenti si intersecano con ciò di cui voglio disquisire: il cibo spazzatura. Ma come si può abbinare il cibo, cioè ciò di cui ci nutriamo con la spazzatura? E allora partiamo dal concetto di cibo buono.

Il concetto di buono è legato alla soggettività di ognuno, è una percezione personale. Ma sarebbe troppo semplice, perché per cibo buono si intende anche ciò che ci fa bene ed è sano e, per esserlo, deve essere lavorato meno possibile rispettandone le caratteristiche e non stravolgendole. E poi la qualità è legata strettamente anche alla stagionalità, altro concetto importantissimo e poco compreso. Ormai zucchine, melanzane, peperoni, fragole e tanto altro sono disponibili tutto l’anno. Ma a che prezzo? E per prezzo non intendo il costo materiale (anche quello) ma quello che paga la nostra salute costretta a ingerire cibo trattato con pesticidi e diserbanti, per accelerare i processi di maturazione. Ne è un esempio emblematico il grano, quello che arriva dall’estero, ma qui si aprirebbe un capitolo troppo ampio. Rimandiamolo.

Con il termine junk food o cibo spazzatura, al contrario, si intendono gli alimenti ricchi di grassi, sale e zuccheri, con basso apporto nutrizionale e carichi di calorie. Sono cibi che riescono persino a creare dipendenza, perché innescano una reazione cerebrale che porta a chiederne sempre più. Ma, quindi, se piace, perché non è cibo buono? Si tratta di alimenti che, a lungo andare – e neppure tanto – possono creare grossi problemi di salute, portando all’insorgenza di malattie anche gravi.

Il successo di questo modo di intendere il cibo è legato alla grande disinformazione e alla cultura alimentare praticamente inesistente soprattutto tra i giovani. E, in questo mare di ignoranza sguazzano non pochi professionisti della ristorazione che hanno ben capito come fare soldi facili, perché l’utenza a cui la qualità non interessa particolarmente è molto più ampia rispetto a quella che cerca, invece, una cucina di qualità.

Da qui il successo delle multinazionali americane del cibo dove la gente fa la fila per accaparrarsi, a pochi soldi, un panino scelto tra le tante proposte (che poi al gusto sono tutte uguali), accompagnato da patatine surgelate fritte in chissà quale olio, bevendo una fantastica bibita gassata per digerire e portandosi pure a casa un simpatico gadget.

Sulla scia di questi successi imprenditoriali si sono poi moltiplicati anche gli esercizi di casa nostra, che hanno ben capito come accaparrarsi quella larga fascia di clientela che per loro rappresenta una miniera d’oro. Una volta, in un post definii quel modo di fare cucina un assemblaggio di porcherie senza senso. Prontamente il mondo della rete (solo una parte, però) reagì con veemenza.

Fui accusato di mancanza di professionalità, perché non avevo il diritto di usare il termine “porcherie”. Ma, ovviamente, sono accuse che mi scivolano addosso, ho sempre detto quello che penso e non mi fermerò certamente alla mia non più giovane età. Addirittura uno di questi ristoratori fece un contropost sostenendo che “le porcherie fanno fatturato”. Senza volerlo si era scoperto, ammettendo pubblicamente che il modo migliore per portare avanti in modo redditizio un’azienda ristorativa era, appunto, pescare nell’oceano dei fruitori di cibo spazzatura.

Con le armi della divulgazione, fatta in tv, sui giornali e anche con interventi in alcuni particolari contesti, sono anni che provo a contrastare questo fenomeno che, purtroppo, complici anche le nuove figure di influencer e content creator, è difficilmente arginabile, in particolare nella mia città, che, negli ultimi anni sembra essere diventata la capitale del junk food italiano.

La mia città è Bari, io sono fiero di essere barese, perché nei miei 64 anni di vita l’ho vista crescere sotto tutti i punti di vista, fino a diventare un luogo dove si vive bene davvero, ma assistere alla sua deriva gastronomica mi fa piangere il cuore. Ho passato quasi trent’anni a promuovere la nostra buona cucina, mai presa in grande considerazione a causa di una tradizione molto radicata e, forse, anche ingombrante.

Il mio amico chef bistellato Moreno Cedroni, con il quale ho condiviso anche un’ospitata in Rai nel corso della quale ognuno di noi parlava della sua terra, mi disse, in quell’occasione, che la nostra cucina è troppo condizionata dall’offerta di crudo di mare e che nessuno, da noi, ha il coraggio di investire su un tipo di ristorazione più ambiziosa. Aveva ragione. Ma almeno, fino a qualche tempo fa, l’offerta ristorativa era dominata, appunto, dal pesce sia crudo che cotto, da piatti dall’alto valore salutistico come le fave e cicorie oppure dai primi piatti fatti con le nostre paste fresche come le orecchiette e i cavatelli.

Sandro Romano con lo chef Moreno Cedroni alla trasmissione Rai: “L’Italia con voi”

Ora, invece, non passa giorno che io non veda contenuti digitali nei quali ragazzetti urlanti decantano panini strapieni di roba messa tutta insieme senza un criterio, con il solo preciso intento di attirare quel pubblico di cui sto parlando. Non passa giorno che io non assista a video di spaghetti bruciati sormontati da stracciatella, tartare, colate di improbabili creme e salse da voltastomaco, attirando una marea di gente estasiata. In tutto ciò, qualcuno pure aiuta questa gente nella comunicazione di tanto scempio, dandone spazio su tv e giornali invece di contrastarla con decisione.

Ho visto panini preparati con pane di scarsa qualità, ripieni di doppio hamburger, burrata, bacon, melanzane, pomodori secchi, crema di pecorino e altre robe che neppure si capivano bene dalle foto, impossibili da chiudere tanta era la quantità del companatico. Oppure burrate ripiene di ogni cosa, persino pasta, o spaghetti bruciati all’amatriciana, alla sangiuannìdde, con le rape…

Ma davvero credete che questa sia cucina? Eppure ha tanto successo e pare che a Bari abbia trovato il suo luogo ideale di crescita. Io penso sia arrivato il momento di tornare alla nostra povera ma gustosa gastronomia. Io non mi stancherò mai di fare divulgazione vera, spesso contro la massa dei gossippari che non vedono cultura nel cibo, ma il semplice racconto di fenomeni che andrebbero, invece, contrastati.

Ma voi lettori di questa mia rubrica, che ne pensate?

 

Foto copertina: Vincenzo Malagoli

 

 

 

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