Vademecum gastronomico per Italiani in viaggio all’estero

“Prima di partire per un lungo viaggio
Devi portare con te la voglia di non tornare più…

Prima di partire per un lungo viaggio
Porta con te la voglia di adattarti…”

Queste parole della nota canzone di Vasco Rossi e Gaetano Curreri, magistralmente interpretata da Irene Grandi, mi tornano in mente ogni qualvolta parto per un viaggio all’estero. Ho iniziato a viaggiare negli anni ’80 e fino ad allora le mie esperienze gastronomiche erano quelle di casa mia e nella mia regione o, al massimo, in qualche altra città italiana dove mi recavo per le gare di scherma, sport che praticavo a buoni livelli. Mio padre mi accompagnava nei ristoranti e, quasi sempre, mangiavamo spaghetti al filetto di pomodoro e paillard, sia che fossimo a Torino, a Venezia o a Rimini. Qualche volta pizza, preferibilmente Margherita se ci trovavamo a Napoli, oppure quella in teglia quando le gare si svolgevano a Roma.

Non che mi importasse più di tanto, per me mangiare era soltanto un modo per nutrirmi, non avevo grande curiosità. Anche a casa il mio pasto era fettina di carne, uova e tanto pane, spesso mangiato asciutto prima di pranzo “rubandolo” a mia nonna direttamente dalla busta del panettiere. Quando si preparavano i rigatoni o le orecchiette col ragù, io cercavo la pasta che non era stata macchiata dal sugo, lasciando nel piatto quella condita. L’unica pasta che gradivo era il timballo della domenica, quello con le uova, la mozzarella e le polpettine e solo in quel caso facevo anche il bis. E poi i dolci, a quelli non ho mai rinunciato e, quando a pranzo mio padre portava la “guantiera” di paste, poiché ero il più piccolo mi lasciavano persino scegliere per primo.

Poi, intorno ai 20 anni, le cose sono cambiate. La mia attività sportiva agonistica cominciò a lasciare spazio ad altre passioni e così, anche nell’anno del servizio militare, il mio interesse verso il cibo prese il sopravvento. Pur legato ancora alla mia terra, quell’anno in Umbria cominciò a farmi provare il piacere di altri cibi, diversi da quelli a cui ero abituato. In libera uscita andavo spesso ad aiutare Ezio nella sua trattoria ad Orvieto, e lui in cambio mi offriva pane e prosciutto artigianale, pappardelle al cinghiale, saltimbocca alla romana, coniglio in porchetta, umbricelli ai porcini, pizza bianca con patè di fegatini e strangozzi al tartufo. Poi, fui assunto nel Banco di Napoli e con i soldini dello stipendio cominciarono i viaggi di un certo impegno, in giro per il Mondo.

Nello Sri Lanka ci arrivai impreparato, insieme ad un bel gruppo di italiani, impreparati anche loro. Nei grandi alberghi si scimmiottava la cucina italiana e ricordo che noi, turisti alle prime armi, eravamo ancora alla ricerca di quella. Gli spaghetti ai wurstel nell’Hotel Oberoi di Colombo segnarono in me la prima rivolta verso quella cucina falsamente italiana, e il profumo del curry che impregnava le strade, e che per me in quel particolare frangente profumo non era, fecero il resto.

Dopo i primi giorni arrivò puntuale, quasi per tutti ma per fortuna me escluso, la cosiddetta “vendetta di Montezuma”, cioè la classica diarrea del viaggiatore, che costrinse metà del gruppo ad un massiccio uso di Imodium. Pian piano, così, cominciai a capire che il Mondo era e doveva essere per forza diverso da quello che avevo conosciuto fino ad allora e fu proprio la cucina a fare da tramite in questo mio nuovo modo di vivere il viaggio, senza presunzione e con tanta curiosità e voglia di apprendere. A tavola passai dal comfort delle patatine fritte e dalle certezze del pane con il burro ad assaggiare il primo pollo al curry e poi, a Negombo mi pare, ad un non individuabile pesce che sapeva di fango, non proprio gradevolissimo, ma un’esperienza anche quella.

Poi al mercato di Kandy trovai la frutta che non avevo ancora mai visto né assaggiato: mango, papaya, passion fruit, mangustine, rambutan e banane rosa. Queste ultime erano così buone che non ho più mangiato banane in Italia per tantissimi anni e gli ananas erano un’altra cosa rispetto ai nostri, molto più dolci e saporiti. Il mondo cominciava ad accogliermi e io mi sentivo parte di esso, non più turista ma viaggiatore. Eppure ricordo, dopo quella settimana in Sri Lanka, l’arrivo alle Maldive. Sul Dhoni (tipica imbarcazione maldiviana) che ci portava alla nostra isola, si diffuse la notizia che nel villaggio c’era la macchina per il caffè espresso. Così, appena ci ancorammo, si scatenò la bagarre: chi si lanciava in acqua per anticipare gli altri nuotando, chi correva per non farsi superare e arrivare prima degli altri al bar. L’Italiano medio, insomma, quello che dopo una sola settimana era in già in crisi di astinenza da caffè espresso, avendo trovato negli alberghi solo quello americano. E non solo, anche astinenza da pasta, pizza, salumi e formaggi, e da tutto ciò a cui erano abituati e che in quei posti non c’era. Una scena raccapricciante, persino ridicola, direi.

Mi accorsi che io non ne avevo poi così bisogno e così continuai a bere caffè lungo, per tutto il tempo della mia permanenza in quel paradiso della natura. Diventai parte di esso nel modo di viverlo, persino nell’abbigliamento ridotto all’essenziale, non un semplice osservatore, ma qualcosa di più vicino ad un Maldiviano. In costume o pantaloncini giorno e notte e, soprattutto, a piedi nudi per accogliere la meravigliosa sensazione che dava il contatto con quella sabbia bianchissima di origine corallina, così simile a farina o borotalco. Cominciai a capire che dovevo a parlare con loro, chiedere notizie, ma i Maldiviani sono musulmani e non proprio loquacissimi. Di notte, sulla spiaggia, gustai con le mani il tipico Kaashi Mas, cioè bonitos cotti sotto la cenere accompagnati dal cocco crudo, immerso in uno scenario mozzafiato di plancton che faceva luccicare il mare come fosse un cielo stellato, lo spettacolare fenomeno maldiviano della bioluminescenza. Nei giorni successivi assaggiai barracuda, cernie tropicali, king fish, marlin e pollo, unica carne che loro cucinavano. E, assolutamente niente vino.

Ma fu in Thailandia che il mio nuovo modo di vedere il Mondo anche attraverso il cibo si arricchì davvero. Lì assaggiai di tutto, cibo piccante e speziatissimo e, ne ricordo ancora oggi il buonissimo gusto, il Pla Kapong, in pratica un pesce di acqua dolce chiamato Barramundi cucinato magistralmente con peperoni, lime, aglio e zucchero di canna. Insomma, per un barese purosangue come me, una sterzata improvvisa dalle radicate convinzioni che il pesce debba essere cucinato nel modo più semplice possibile per gustarne tutto il sapore. Quel pesce era una vera poesia, con i sapori perfettamente armonizzati, e le spezie usate che non coprivano il sapore della carne ma la accompagnavano delicatamente.

In Indonesia, poi, fui conquistato dalla bontà del Nasi Goreng, il loro riso fritto, e mai dimenticherò quando un cameriere, in un albergo di lusso, mi chiese se volessi frutta di stagione o frutta esotica per chiudere il pasto. “Frutta esotica – risposi – of course!” Ma, con mia grande sorpresa, mi arrivarono mele, pere, fragole e anguria. Ovviamente, la frutta esotica per loro era quella.

Questi episodi che mi sono capitati quando, viaggiatore ventenne, cominciai ad affrontare la cultura gastronomica dei luoghi che visitavo, hanno segnato profondamente il mio modo di vedere la vacanza all’estero. Da quel momento ho cominciato a raccogliere documentazione, attrezzi, padelle e libri di ogni luogo che visitavo, fino ad avere attualmente oltre 6000 libri di cucina su ogni argomento, provenienti da ogni parte del Mondo, in inglese, in francese, in spagnolo, qualcuno scritto persino in cirillico. Oltre, ovviamente, a quelli in italiano su ogni argomento, tipo tecniche, cucine regionali e la cucina nei secoli.

La cucina è anche lo specchio della cultura di un paese e, attraverso essa, è persino possibile comprenderne le differenze etniche, politiche e religiose. Ad esempio, in Croazia – era il 1988 ed esisteva ancora la Repubblica di Jugoslavia – feci amicizia con Yure, titolare del Malo Misto, un locale con affaccio sulla bella costa dalmata. La prima volta che ci entrai, una coppia di Romani ci convinsero a ordinare il risotto ai frutti mare, che secondo loro era meraviglioso. Invece, era pressoché immangiabile, una specie di brodaglia che nulla aveva di simile a un risotto. Eravamo incappati ancora nei classici Italiani che, all’estero, cercano la cucina italiana. Ma quella sera capii comunque che quello era il posto giusto, ogni sera cenavo in quel locale e, oltre a fantastici frutti di mare, pesci arrosto e carni ottime, un giorno gli chiesi di prepararmi i Cevapcici, in pratica tipiche e semplici salsiccette di carne mescolata a tanta cipolla e pepe, che erano il piatto più conosciuto della cucina slava.

“Non te le farò mai – mi rispose infastidito Yure – quello è un piatto serbo!” Per me, prima di quella secca risposta, esisteva solo la Jugoslavia, che, effettivamente, fino al 1991, era una repubblica federale formata da Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Serbia, Montenegro e dalle due province autonome della Vojvodina e del Kossovo. Pertanto Yure si sentiva croato e non jugoslavo, e certamente non aveva granché feeling con i Serbi. Non molto tempo dopo, infatti, scoppiò la terribile guerra che, con tante vittime, portò alla disgregazione della confederazione e all’attuale divisione nei vari stati.

Tutti questi episodi della mia vita gastronomica e di viaggiatore hanno creato in me la convinzione assoluta che, all’estero, la cucina italiana va evitata, anche se attualmente le cose stanno un po’ diversamente rispetto a un po’ di tempo fa, perché la globalizzazione ha portato una maggiore velocità di diffusione degli alimenti. Ma, pensateci, che senso ha andare in Giappone e mangiare una caprese? O sedersi a tavola in Germania e cercare la carbonara? Oppure in Marocco preferire la pizza a una Tajine di pollo e limone sotto sale? O in Eritrea evitare Zighinì e Injera per scofanarsi un piatto di pastasciutta? Non mangiare un Chilli con carne in Texas o una Jambalaya a New Orleans optando per un panino da McDonalds?

Del resto chi di noi non ha riso a quella scena del film “Quo Vado” nella quale Checco Zalone smonta l’insegna di un ristorante italiano in Norvegia urlando “Non si scrive l’Italia invano, vichingo!”, dopo aver assaggiato gli spaghetti scotti e tremolanti?

Viaggiare è divertente anche perché il Mondo è pieno di cibi da assaggiare, non soltanto per il loro gusto ma anche per la curiosità e la voglia di conoscenza che ci suscitano. Ho provato il pesce siluro in Romania. È vero, non mi è piaciuto, ma non fa nulla, perché mi sono rifatto con uno strepitoso fegato d’oca con le mele, i Mititei e le loro Chorbe (zuppe) con panna acida.

In Germania si mangiano solo patate e si beve birra? Mica vero, stinchi di maiale, arrosti e stufati di carne accompagnati da buoni vini sapranno deliziarvi. A Londra si mangia male? Solo fish and chips? Assolutamente no, Londra per me è la capitale europea della ristorazione. In Grecia si mangia mediamente bene un po’ ovunque, ma lasciatevi guidare dal naso e dall’esperienza e vivrete cene indimenticabili nelle loro taverne, magari a pochi metri dal mare. In Spagna non c’è solo la paella che, in realtà ormai si trova un po’ dappertutto, ma con una certa difficoltà quella davvero buona a causa della grande richiesta turistica che chiede soprattutto quella mixta”, cioè con carne, pesce e ortaggi, e mai quelle veramente tradizionali. A Barcellona meglio non cercare la Paella ma il Caldoso, che è una specialità catalana simile, sempre a base di riso ma più brodosa. In Andalusia assaggiate il Rabo de Toro, a Valencia dissetatevi con l’Orchata de Chufa, una bevanda ottenuta da un piccolo caratteristico tubero.

In Portogallo non volete assaggiare le tante ricette di baccalà? Oppure i piatti cucinati nella cataplana, la loro tipica pentola in rame? In Corea non si può non provare il Kimchi o la carne cotta sul loro tipico grill, così come in Turchia bisogna assaggiare i tanti tipi di kebab, non soltanto il doner kebab cioè l’unico conosciuto da noi Italiani. E l’Haggis, in Scozia, non lo provereste? E il Tabouleh in Libano?

Tutto ciò per dire che, ovunque vi rechiate nel Mondo, non può mancarvi la curiosità di conoscerlo e assaporarlo anche attraverso il cibo e potrei stare ore ad elencare centinaia, anzi migliaia di altre ricette. Certo, persino io non sarei capace di assaggiare cibi estremi come l’uovo fecondato, serpenti, topi, scimmie e insetti. Anche questi sono cibi che dipendono dalla cultura di un popolo e non è necessario essere così “intraprendenti”. Pensate che noi Baresi mangiamo tranquillamente il polpo crudo e vi assicuro che, alcuni anni fa, un ragazzo ungherese, guardandomi, ne rimase schifato.

Il mio ultimo viaggio è stato in Egitto, dove sono stato quattro volte e dal quale sono tornato solo pochi giorni fa. Ero ospite e mi hanno portato subito in un ristorante italiano. Risultato? Pasta scadente di una nota marca italiana, anelli di calamari fritti male in olio di chissà che, e gamberoni argentini a conferma di quanto detto finora. Sulla tavola due bottigliette, una di un simil aceto balsamico e l’atra di un liquido verde spacciato per olio extravergine, da fare invidia persino a Chef Ruffi. Dal giorno successivo solo ristoranti egiziani, e piatti gustosissimi come Ful Medames, Falafel, Kofta, Hawawshi, Shish Tawook, Kunafa e tanto altro, compresa una bella grigliata di aragostelle.

Sandro Romano

Fra non molto si parte per una nuova esperienza, in India, nazione dove non sono mai stato e la cui cucina, che comunque conosco e amo molto, mi farà ancora una volta da guida verso questo affascinante e sterminato paese. Ma qui si apre ancora un capitolo persino troppo ampio. Cosa è la cucina indiana? Quella vegetariana è ampiamente diffusa, poi le varie religioni del Paese condizionano l’uso di determinate carni. I Musulmani non mangiano il maiale, gli Indù non mangiano i bovini, per loro animale sacro. Cercherò di provare tutto ciò che posso, ma certamente non mi farò mancare i loro strepitosi pani, come chapati, naan, paratha, kulcha, baati, poori, bhatura e tanti altri, oltre alle preparazioni di riso come il biryiani e a tutto ciò che viene cotto nel tipico forno tandoor. Mi riempirò certamente di oggetti, libri e strumenti di cucina, ma soprattutto di ricordi ed esperienze. È quello che un vero viaggiatore deve fare sempre, gustando cultura, natura, rapporti umani e, ovviamente, anche cucina. Che pure cultura è.

Del resto, senza allontanarci troppo, se ci rechiamo a Lecce non proviamo ciceri e tria e pezzetti di cavallo? Stacchioddi e Puddica a Brindisi? Pancotto e Galluccio a ragù nel Foggiano? Anguilla a Lesina? Pasta con le cozze a Taranto? Burrata ad Andria e Pane e Pasticcio ad Altamura? O Focaccia e Tiella a Bari? Insomma, paese che vai usanze che trovi dice il noto proverbio. Ma anche cibo che trovi e il vero viaggio inizia anche da lì, mettendo da parte ogni campanilismo per godercelo al meglio e partendo con la valigia vuota da riempire man mano, insieme alla testa e al cuore, Poi, una volta tornati a casa, una parmigiana o una pizza ci può stare, accompagnate da un bel bicchiere di vino buono. Perché, dopo tante belle esperienze, non dobbiamo dimenticarci quanto si mangia bene anche nella nostra amata Puglia e in tutta la nostra bella nazione!

 

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