Qualche giorno fa mi è capitato di vedere un post su Facebook dell’amico Franco Ricatti, storico ristoratore di Puglia, già Stella Michelin, che metteva in primo piano una foto con un bel bicchierone di percoche nel vino rosso.
Lo hanno commentato in tanti e a me sono riaffiorati antichi ricordi, perché probabilmente le percoche nel vino sono da considerare il vero dessert estivo pugliese.
Ero un bambino quando mio padre e mia madre me lo fecero assaggiare per la prima volta, contrariamente alle regole che vorrebbero, giustamente, tenere l’alcol lontano dai bimbi.
Una volta assaggiato non si torna indietro, d’estate è pressoché impossibile farne a meno e, quindi, non ho saputo resistere alla tentazione di prepararmelo.
Così sono andato al mercato, ho comprato delle percoche belle e profumate e le ho messe a pezzi in un bel bicchierone, coprendole di vino rosso.
Il frutto deve essere giallo, sodo e profumato, è importante. Ma che vino usare?
Non sprecate vini costosi, non serve, se le percoche sono buone saranno loro a sposarsi dolcemente con un rosso senza grandi pretese.
Proprio Franco Ricatti, da me raggiunto telefonicamente, ha detto cosa è giusto usare: “Ci vuole un vino rosso corposo dalla boccata tendente al dolce. Non quello di bottiglie costose e blasonate, ma quello del contadino, perché questa preparazione nasce dalle campagne dell’entroterra pugliese, era il dessert estivo delle nostre tavole. La frutta va tagliata a pezzi, senza pensare troppo al tipo di taglio, non ha importanza, ciò che conta è che sia buona e saporita. Il vino deve essere freddo, in barba alle classiche regole che vorrebbero il vino rosso a temperatura più alta”.
Di altro parere alcune moderne scuole di pensiero che vorrebbero, invece, un rosso di qualità o addirittura un bianco.
“Ma quando mai – ribatte Franco – prima sulle tavole pugliesi il vino era solo il rosso, bevuto freddo persino sul pesce, mai a tavola si beveva il bianco, che si è cominciato ad utilizzare molto più tardi. Infatti pure sulle tagliatelle, cioè le seppioline tagliate a strisce, e sugli allievi, cioè le seppie giovani che si mangiano crude con tutte le interiora, era usanza bere il rosso, che ben si sposava con il pepe utilizzato per insaporirle. E assolutamente mai si utilizzava il limone, con il pesce e, contrariamente a quanto si pensi attualmente, invece, spesso si abbinava il Pecorino”.
Confermo, anche a casa mia, sul crudo di mare, la domenica, si beveva il vino rosso tenuto freddo e, per quanto riguarda l’abbinamento pesce e formaggio, un classico è, da sempre, le cozze crude con il provolone.
Sono d’accordo, quindi, con l’amico Franco Ricatti, vino rosso anche con le percoche, che a me piacciono con tutta la buccia, ma se preferite o non siete sicuri della provenienza, toglietela pure.
Dello stesso parere Felice Giovine, storico della città di Bari, anche a casa sua si mangiavano “le prequèche ind o mmìire”.
“Si utilizzava il vino rosso – sostiene Felice – quello che si beveva a tavola tutti giorni, rinfrescandolo per renderlo più gradevole”.
Lo storico barese evidenzia come il termine “prequèche” nel dialetto barese si usa anche nel significato di fesseria, stupidaggine o errore grammaticale, in pratica quando si sbaglia nel parlare.
A Bari, infatti, quando qualcuno dice una cosa sbagliata, si usa dire “quello ha menato un priqueco”, che nasce, però, non dal frutto ma ipoteticamente dalla frase latina “qui pro quo”, che significa “qualcosa al posto di altro”, cioè equivoco o fraintendimento.
Ciò che non sono mai riuscito a spiegarmi, invece, è come mai il corretto termine percoca venga utilizzato nel dialetto barese al maschile, cioè il percoco, “u prequèche”che, invece, dovrebbe essere solo l’albero e non il suo frutto.
Ma vi assicuro che, difficilmente capiterà di sentire un barese nominare correttamente questo frutto, il 90% delle volte lo chiamerà percoco e, da bambino, lo facevo io stesso come tutti i miei famigliari. Negli anni, per abituarmi ad usare il termine corretto mi sono dovuto impegnare, non mi veniva proprio spontaneo.
Al contrario, il fico dovrebbe essere soltanto l’albero, mentre il frutto dovrebbe chiamarsi correttamente al femminile, ma il termine era forse ritenuto poco elegante e magari anche un po’ osè. Rimane, però utilizzato al femminile nel Salento, dove nel mese di agosto, nella frazione Marittima del comune di Diso (Le) si tiene la suggestiva Festa della fica.
Pure la percoca è protagonista di alcune sagre, che si sono svolte un po’ ad intermittenza negli ultimi anni, anche a causa della pandemia Covid, nelle città di Canosa e di Turi.
Rinomata è la varietà di percoca “Guardaboschi” di Turi, che matura ad agosto ed era protagonista di una curiosa gara nella quale i produttori si sfidavano per ottenere il frutto più grande.
La tecnica per ottenerlo è quella dello “spidocchiamento”, cioè lasciare sulla pianta solo pochi frutti, in modo che le sostanze nutritive siano veicolate solo verso quelli, non disperdendosi verso il resto della pianta, diventando, così, di dimensioni e peso fuori misura.
Da rilevare come in Puglia una sessantina di famiglie portano il cognome Percoco, la maggior parte concentrate nel Barese e, curiosità invero un po’ macabra, Franco Percoco è stato un assassino barese che nel 1956 sterminò la sua famiglia, alla cui cruenta storia, tratta dal libro dello scrittore Marcello Introna, è stato dedicato un film del regista Pierluigi Ferrandini che, nel 2023, è stato presentato al Bifest di Bari.
Ma questa è altra storia rispetto all’argomento percoca, che per me e per tanti di noi, è uno dei frutti simbolo dell’estate pugliese e, messa nel vino, diventa una rinfrescante, imperdibile golosità che poi, da ottobre in poi, rimpiangeremo fino al mese di giugno dell’anno successivo.