Gàlipa, il ristorante di Francavilla Fontana nato dall’unione dei nomi di Giovanni Galiano e Roberta Pappadà

Hanno viaggiato, hanno studiato, hanno lavorato in lussuosissimi hotel a cinque stelle. Eppure non hanno saputo resistere al richiamo delle radici, e in un momento fondamentale della loro esistenza umana e professionale, Giovanni Galiano e Roberta Pappadà hanno deciso di rientrare a Francavilla Fontana. E qui hanno pensato di mettere a frutto le irripetibili esperienze vissute tra Portofino, la Svizzera e il Lago Maggiore, lei in sala e lui nella cucina di esclusive strutture alberghiere. Così è nata l’idea di avviare un’attività in proprio, e per realizzarla non si sono lasciati intimidire neppure dalla pandemia del duemilaventi, che tuttavia li ha costretti per due anni a limitarsi (si fa per dire) al servizio di delivery. Il tutto prima di inaugurare nella città natale il ristorante a loro stessi dedicato, che non a caso si chiama Gàlipa: un acronimo delle prime lettere dei rispettivi cognomi.

La scelta del nome è l’evidente indizio di un profondo senso di appartenenza, della totale identificazione di Giovanni e Roberta con la propria creatura. Una passione così tenace da coinvolgere immediatamente anche il loro valido collaboratore Marco Ancora, che dopo il diploma all’istituto alberghiero ha affrontato impegnativi corsi di studi sulla storia e la cultura dell’alimentazione, e ha seguito le lezioni di prestigiosi docenti non soltanto in Italia. Tanto da riuscire a trasmettere con disinvoltura la sua preparazione quando accoglie gli ospiti (insieme a Roberta) negli insoliti ambienti interni, con pochi tavoli ben distanziati, e diverse chicche alle pareti, quali le riproduzioni di maschere tribali, gli antichi merletti e i grandi ventagli. Il tutto con il valore aggiunto dell’arredamento concepito dall’architetto Rossana Galiano (sorella di Giovanni), e organizzato intorno ai quattro colori rappresentativi della Puglia: il rosso del vino, il giallo del sole, il blu del mare e il verde degli ulivi. Si direbbe che l’estro e la fantasia si intreccino continuamente con il recupero delle tradizioni ataviche.

Esattamente come avviene nelle preparazioni dello chef, nelle quali i classici vengono interpretati in maniera personale, e gli ingredienti della tradizione vengono abbinati con un pizzico di originalità. A dimostrarlo interviene, in prima battuta, la sorprendente delicatezza della purea di fave con le pere e i germogli di barbabietola. Subito seguita dall’elegante anatra salmistrata con riduzione al latte e timo e tartufo bianco; nonché dal piccolo capolavoro della parmigiana di melanzane (sbucciate e fritte senza pastella) con coulis di pomodoro e spuma al formaggio parmigiano.

Mentre i cosiddetti piatti forti hanno il grande merito di far sentire perfettamente tutti i sapori, e di conservare un loro equilibrio complessivo, anche in presenza di gusti che potrebbero essere dominanti. Ciò vale tanto per i plin (agnolotti piemontesi) ripieni di carciofi con fonduta di caciocavallo, olio profumato al prezzemolo e germogli di barbabietola; quanto per la costina di maiale alla paprica dolce cotta a bassa temperatura, con crema di cipolla, funghi champignon, e aceto balsamico. È impossibile resistere alla ghiotta tentazione di intingere in un ottimo olio della zona il fragrante pane integrale, fatto in casa e servito ancora caldo. Per un opportuno suggerimento enologico ci si deve rivolgere allo stesso Marco, e si può chiudere con il cremoso al cioccolato con pistacchio e amaretto.

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