Salviamo la ristorazione barese dalle “cosiddette varianti” degli spaghetti all’assassina

Quando ho iniziato a scrivere questo articolo non vi nascondo che ho pensato al film con Tom Hanks “Salvate il soldato Ryan”, in quanto ritengo che salvare la cucina e la ristorazione barese sia oggi una priorità.

Tante volte, soprattutto fuori Puglia, mi sono sentito dire che nessun ristorante barese avrebbe mai potuto ambire alla Stella Michelin perché la nostra ristorazione è troppo legata alla tradizione e al rito del crudo di mare, e questa cosa mi è sempre sembrata una sorta di pretesto per non prendere in considerazione la qualità e la bravura di alcuni nostri chef.

Per contrastare questo pregiudizio, alcuni anni fa creai, insieme a Giovanni Ventrelli, mio partner di tante manifestazioni, un gruppo di lavoro su questo argomento, che chiamammo Bari Centrale.

Nei nostri intenti c’era quello di creare un movimento di ristorazione la cui qualità fosse riconosciuta a livello nazionale, un progetto potenzialmente bellissimo che purtroppo non ha attecchito, proprio per le divisioni createsi nel tentativo di portarlo avanti, e così lo abbandonammo.

 

Intanto la ristorazione pugliese di livello è cresciuta tanto, con nuove e meno nuove stelle in città come Peschici, Ostuni, Manduria, Savelletri, Conversano, Putignano, Carovigno, in capoluoghi come Trani e Lecce che ne hanno due a testa offrendo tante altre alternative di alto livello, mentre Bari è rimasta al palo, nonostante si tratti ormai di una città di livello europeo, che gode di un flusso turistico impensabile fino a qualche anno fa.

Io non so quale sia il motivo vero, ma so che noi baresi siamo maestri nel farci del male, troppo spesso accade e ormai ne sono convinto.

Bari è surclassata da città potenzialmente più piccole e con meno esercizi di ristorazione, so bene che ammetterlo fa male, ma è la verità, ed è un argomento che mi sta a cuore perché ritengo la cosa davvero pazzesca.

Siamo fermi? Purtroppo no, magari così fosse, sarebbe persino meglio. Spesso mi hanno parlato di tradizione ingombrante, del barese che al ristorante predilige la sostanza all’esperienza gastronomica, dove per sostanza si intende pesce crudo, orecchiette e rape, fave e cicorie, brasciole di cavallo e antipasti di ogni genere a riempire la tavola.

Io non ho mai ritenuto un problema tutto ciò, del resto se vai a Bologna non cerchi i tortellini, a Milano la costoletta, a Torino la bagna cauda? È ovvio che il turista cerchi queste cose.

 

Il problema nasce, però, quando si esagera, e a Bari si sta verificando una involuzione che appare pressoché inarrestabile, il dilagare delle varianti di un piatto che, da un po’ di anni a questa parte si è conquistato un posto nel cuore dei baresi e, ora, purtroppo, anche dei turisti.

Sto parlando degli Spaghetti all’assassina, nati alla fine degli anni ’60 grazie all’intuizione di Enzo Francavilla, cuoco foggiano che li inventò nel suo ristorante “Il Sorso Preferito” nel quartiere Murat a Bari.

Francavilla non aveva in carta questo piatto, ma – come lui stesso mi ha raccontato – lo serviva come “complimento”, cioè come regalo di fine pasto, un po’ come gli spaghetti aglio, olio e peperoncino.

Si tratta di un piatto che, nonostante le ricette sbagliate e malamente diffuse in questi anni, ha la sua dignità storica e che, nella sua versione originale, è certamente gustoso.

E allora qual è il problema? Il problema è che la pessima divulgazione della ricetta che lo ha visto praticamente carbonizzato e persino croccante, ha fatto serpeggiare l’idea che qualsiasi cosa bruciata possa essere chiamata “all’assassina”.

Questo concetto si è sviluppato, purtroppo, sull’universale mancanza di cultura alimentare tipica soprattutto di un certo tipo di clientela e così il mondo del junk food ha messo i suoi germogli nella città di Bari, cosa della quale si lamentano i ristoratori di un certo livello, quelli più orientati alla qualità.

Alcuni giorni fa, chiacchierando in un ristorante barese molto frequentato da turisti stranieri, la titolare mi ha detto: “Non avevo in carta l’assassina, ma quando mi chiamano per prenotare, soprattutto gli stranieri, mi chiedono se la facciamo e alla fine ho dovuto metterla”.

Un altro ristoratore mi ha detto: “Noi facciamo solo l’assassina tradizionale. Ma qualcuno mi chiede insistentemente la stracciatella e allora gliela porto e la faccio pagare a parte”.

Un altro ristoratore, invece, se l’è presa a morte perché in una trasmissione televisiva e in un post su facebook “mi sono permesso” di definire “porcherie” le varianti.

“Le porcherie fanno fatturato” ha tuonato, affermazione che – già di per sé – suona un po’ come l’ammissione di un lavoro non proprio orientato alla qualità.

Poi ci sono persino quelli che vanno in giro a dare voti ai ristoranti in base all’assassina che fanno, e c’è pure l’Accademia di questo piatto, nata goliardicamente ma trasformatasi nel tempo in una sorta di organismo dal quale – secondo loro – non si potrebbe prescindere.

Secondo questa associazione, andrebbe usata la loro ricetta, codificata senza una ricerca storica, direi sul nulla, e divulgata dal suo presidente autocelebrandola come “ricetta perfetta”, definita persino migliore dell’originale in un’intervista rilasciata alla Gazzetta del Mezzogiorno, anche se zeppa di grossolanità e facilmente dimostrabili errori tecnici.

“Quella di Francavilla non incontra il gusto dell’accademia” la divertente risposta nell’articolo del quotidiano barese.

Boh, non capisco, perché un’accademia che non riconosce il piatto originale, prima d’ora non l’avevo mai sentita, però nulla più mi meraviglia.

Persino gli americani, riconosciuti nel Mondo quali grandissimi esperti di junk food, si sono interessati a questo “fenomeno” e si è scomodato, il noto attore Stanley Tucci che si è recato a Bari per verificare il “fenomeno assassina”.

Alcuni mesi fa fui contattato anch’io dal giornalista Steven Reichlen del New York Times che mi chiedeva notizie sull’argomento, puntualmente fornite in buon inglese, in modo che non si confondesse e scrivesse castronerie.

E cosa ha diffuso, infine, pure il prestigioso giornale della Grande Mela? Nulla di tutto il materiale fornito, ma soltanto la visione voyeristica dell’argomento, con una serie di imprecisioni tra cui quella riguardante lo scopritore della vera storia, erroneamente non attribuita allo storico della città di Bari, Felice Giovine.

Vabbè – potrebbe dire qualcuno – ma cosa vuoi aspettarti da chi adora la pizza con l’ananas e considera gli spaghetti con le meatballs il piatto più importante della cucina italiana?

Bene, tutte queste mie considerazioni sono condivise da chi, invece, fa da sempre una cucina di qualità e si rifiuta categoricamente di averli in carta, anche se, nelle osterie, nei bistrot e nelle trattorie questi spaghetti possono tranquillamente coesistere con i nostri piatti storici.

Ma vi prego, basta con queste cosiddette varianti, però!

Perché le chiamo “cosiddette varianti”? Perché neppure lo sono, in quanto il concetto di “assassina” è originariamente legato al piccante e assolutamente non al bruciato. Ora invece sembra che basti bruciare qualsiasi cosa per essere autorizzati a chiamarla “all’assassina”.

Bruciano la bistecca? Bistecca all’assassina. Bruciano la zucchina? Zucchina all’assassina. Bruciano la legna? Legna all’assassina. Sarà ora di smetterla?

La cucina è cultura, è rispetto della storia, degli ingredienti, del cliente che si siederà al vostro ristorante.

Non lamentiamoci, poi, se i giovani cuochi non conoscono questi valori e cucinano robaccia ricoperta dall’immancabile stracciatella, da salse assurde, da improbabili pistacchi esteri spacciati per Bronte, da fili di peperoncino preconfezionati, e fanno grande attenzione nel posizionare con la pinzetta la fogliolina di acetosella o il germoglietto di piselli o di cavolo rosso solo perché sarebbero belli da vedere, rendendo tutto uguale ma fotografabile. Anzi, come dicono quelli che se ne intendono, “instagrammabile”.

Cari lettori, la cucina, quella vera, è tutt’altro. È quella fatta da coloro che hanno rispetto degli alimenti, degli abbinamenti, e sono capaci di portare in tavola piatti che si basino innanzitutto sui parametri del gusto, e solo in seconda battuta anche dell’estetica, purché non fine a se stessa. E che siano, magari, anche attenti alla salute e ai parametri della nutraceutica.

Poi c’è la cucina della storia, delle nostre nonne e mamme, che ha una grande dignità, legata com’era al momento storico in cui è nata. Le bucce di patate erano un’esigenza, pane e cipolla o pane e olio erano una gioia, un pollo arrosto un lusso.

Sarei io, quindi, contrario all’innovazione, come indicato in un disattento e ruffiano articolo del Gambero Rosso ripreso dall’ancor più disattento pezzo del New York Times?

L’innovazione ha in sé un concetto, che è il miglioramento non lo scimmiottamento del passato.

È questo il vero significato di innovazione.

Le auto di 50 anni fa erano meno sicure e performanti di quelle di oggi, le case non avevano la luce elettrica, i treni andavano a carbone, poi, grazie a sapienti tecnici e scienziati si è andati avanti, migliorando.

Nella cucina, invece, pare che, con i programmi tv e l’avvento di Internet e dei social, tutti siano diventati “innovatori”, che con aggiunte o sostituzioni rispetto alla tradizione si sentono novelli Marchesi, Pierangelini o Paul Bocuse. Anzi, per essere più al passo con i tempi, tutti si sentono Cracco, Barbieri o Cannavacciuolo.

Insomma, le domande che rivolgo a tutti sono queste: “Aggiungere roba su un piatto storico fa di per sé innovazione? Bruciare ogni cosa è un’innovazione? Accavallare ingredienti più o meno a casaccio è sufficiente per chiamare innovazione questo modo di cucinare?”

Nel campo dell’assassina ho sentito di tutto e la cosa non può che farmi rabbrividire. Ho visto nei menù: Assassina con stracciatella, Assassina cacio e pepe, Assassina alle rape, Assassina al pesto, Assassina alla Sangiuannìidde, Assassina con tartare di gamberi, Assassina con tartare di tonno e mezza caciotta, Assassina al tartufo, Assassina di mare, Assassina con bisque di gamberi peperoni e non mi ricordo che altro, Zizzona ripiena di Spaghetti all’Assassina, Panzerotto all’assassina, assassina alla carbonara.

Ma se vi impegnate potete fare l’assassina con le zucchine, quella con i carciofi, quella con la zucca, quella con i peperoni gialli verdi e rossi, quella con la verza, quella con i ceci e i fagioli, quella con le brasciole, e – perché no – con le cozze e la Nutella.

Insomma, non vi sembra di esagerare?

Trovo che siamo davvero alla frutta e, per non sentirmi solo in questo mio pensiero, ho rivolto questa domanda ad alcuni ristoratori, cuochi e comunicatori del mondo food: “Cosa pensi delle cosiddette varianti dell’assassina e, secondo te, danneggiano la percezione della qualità della ristorazione barese?”

Ho ricevuto le più svariate risposte, tutte interessanti, qualcuno ci ha messo la faccia qualcuno ha preferito rimanere anonimo, ma vi assicuro che si tratta soltanto di importanti personaggi della ristorazione.

Riporto fedelmente le loro risposte:

 

“Prima di fare una variante su qualsiasi piatto bisogna entrare in completa simbiosi con l’originale, dopodiché si può decidere di personalizzarlo oppure no. (Antonio Bufi – chef).

 

“Ci vuole un po’ di decenza, vabbè che c’è gente che mangia lo schifo, ma c’è anche un limite che non bisogna valicare, neppure per gli incassi. Comunque la ristorazione barese è già danneggiata di suo. (Chef)

 

“Non mi entusiasma questo argomento, preferisco rimanerne fuori, perché mi sono rotto” (Ristoratore)

 

“Si tratta di un danno all’identità della cucina tradizionale. Una moda che sono convinto finirà presto” (Vincenzo Rizzi – giornalista Corriere del Mezzogiorno)

 

“Non mi stuzzicare, non mi istigare, meglio che mi sto zitto sennò faccio danni”. (Ristoratore)

 

“Inorridisco e non vale solo per l’Assassina, ma per tutte le storture gastronomiche che vedo in giro. Si è smesso con i fiori eduli e ora si infila stracciatella dappertutto. Voi che fate comunicazione denunciatele queste cose, la storia non si tocca” (Franco Ricatti – Ristoratore)

 

“Per me i monumenti gastronomici della Puglia sono intoccabili e devono rimanere tali. Le evoluzioni sono mode che passano, i monumenti resteranno” (Chef)

 

“Le infinite e sempre più sconvolgenti “varianti” della ricetta, a mio personale parere, non aggiungono valore, piuttosto depauperano la tradizione e la cultura culinaria. Oramai si ragiona in termini di visibilità e di follower (che nella maggior parte dei casi non hanno la cultura del buon cibo e del mangiare bene). Il food porn passa come concetto di buono e appetitoso, quando è tutt’altro, portando inevitabilmente ad una percezione sempre più misera in termini qualitativi della ristorazione. Come ho sempre sostenuto, “less is more”, semplificare o restare fedeli alla tradizione diventa sempre più difficile, ma deve essere il punto di partenza per una giusta evoluzione che affonda le radici e deve avere rispetto per la tradizione” (Maurizio Tinelli – Chef Patron Yuki Noci).

 

“È una vergogna, follia allo stato puro. Con le rape, col tonno, con la stracciatella, con i frutti di mare, con i peperoni. Ci chiamano dagli alberghi per sapere se li facciamo, ormai non chiamano più per i nostri meravigliosi piatti come la tiella, le orecchiette o le fave e cicorie. Sono veramente schifato e io non li farò mai”. (Ristoratore)

 

“Senza ombra di dubbio, penso che alla base ci sia una forte disconnessione tra il mondo gastronomico serio e i social network. I giovani pensano sempre meno al gusto, a favore di ciò che può essere virale sui social. L’assassina acchiappa i like, e quei furbi ristoratori guidati da strategie di marketing contorte, lo sanno e, per questo cercano, di farla più strana possibile. Queste pratiche danneggiano non solo la percezione locale ma soprattutto quella turistica, che non ben sapendo la verità di questo piatto (scoperta solo qualche giorno fa), propagandano un qualcosa di inesistente, recando un danno storico culinario che se non fermato in tempo, sarà difficile da risanare”. (Gianfranco Laforgia – blogger Sapori di Puglia 130mila followers)

 

“Non considero gli spaghetti all’assassina un piatto meritevole di così tanta “tutela”, ma capisco bene che questa grande esposizione mediatica, dovuta ad una combinazione fortuita di eventi, rende questo piatto il perfetto protagonista di una saga che sta prendendo una piega assai preoccupante. Sugli spaghetti all’assassina temo che si stiano innescando una serie di preoccupanti “incidenti” che potrebbero mettere a rischio la percezione della cucina barese al di fuori della Puglia. Gli “ingredienti” di questa disfatta sono: 1. Un’accademia che registra ingredienti e modalità di preparazione che, però, non corrispondono a quella originale; 2. Un ristorante a Bari che fa varianti che non sono varianti ma vere e proprie castronerie, attirando persino l’interesse di un attore americano. Spero che queste ricette vengano presto dimenticate”. (Giovanni Mastropasqua – direttore editoriale Oraviaggiando)

 

“Più se ne parla e peggio è, tutti sanno, tutti tirano fuori varianti, ognuno trasforma e diventa proprietario di una ricetta. L’assassina è un nome che tira quindi tutti fanno le varianti che poi assassina non sono. Credo sia una schifezza per la cucina barese che ha tanti piatti e tante altre cose che si possono mettere in risalto. Chi te lo fa fare, tanto sono tutti professori, tutti chef, tutti personaggi, tutti hanno studiato la cultura del cibo e poi non sanno la differenza tra un calamaro e un totano. È un disastro”. (Vito Bianchi – ristoratore)

 

E, in ultimo, riporto anche il mio pensiero:

“Basta, smettiamola di rovinare ogni piatto bruciandolo e abbinandolo a improbabili ingredienti. La cucina è cultura, non la si può ridurre a un miscuglio di ingredienti, va studiata e rispettata. La mia città è diventata la terra di conquista del cibo spazzatura e io questa cosa non riesco ad accettarla. Quanto mi piacerebbe vedere molti più cuochi lavorare sulla conoscenza dell’olio extravergine d’oliva, sul rispetto delle materie prime, sulla capacità di utilizzare le giuste tecniche per la valorizzazione del gusto. E sul concetto di una cucina più legata al concetto di salute.

Allora che ne pensate, smettiamo con questa follia collettiva di bruciare ogni cosa, visto che non è bello, non è buono e non ci fa bene?”

 

 

 

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