Formidabile quell’anno. Il 1957 lo fu a San Donaci, piccolo centro a una ventina di chilometri da Brindisi, dove è già Salento.
Era il 9 settembre: i poliziotti sparano sulla folla dei contadini che protesta e lasciano sul selciato tre cadaveri, di gente che fra l’altro con la protesta degli agricoltori c’entra poco. La guerra del vino, la chiamarono e la rivolta, avviata a San Pietro Vernotico e Cellino San Marco, ebbe uno dei suoi epicentri proprio a San Donaci, dove i contadini cominciavano ad accusare pesantemente il calo del prezzo dell’uva. Lo spettro della fame portò gli uomini e le donne a scendere in strada.
Il ministro dell’Interno era il famigerato Tambroni, che sarebbe stato Primo ministro nel ’60, al tempo dei morti di Reggio Emilia.
Ma torniamo a tre anni prima. Da Atripalda arriva a San Pietro Vernotico Severino Garofano. L’enologo irpino ha solo 22 anni e un sacco di idee in testa. Uomo della cooperazione, è tra gli inventori della Puglia dei vini, lavora a Copertino e, appunto, a San Donaci. Dove conosce la famiglia Candido. E da quei vitigni, da quelle botti, da quei torchi fa nascere il Cappello di prete, un Salento Igp, una spremuta di uve di Negroamaro a lunga macerazione in acciaio dei grappoli diraspati, ben presto uno dei pilastri della produzione vinicola pugliese. E non solo.
Originari di Guagnano, i Candido sono oggi una delle famiglie di riferimento nel mondo del vino. Sandro, 75 anni, ne rappresenta la terza generazione. La sua effervescenza è pari alle sue capacità imprenditoriali. Appassionato di finanza, ha adottato un motto: la realtà è questa e con essa ti devi confrontare. E con essa devi correre, competere. Le cantine Candido esportano, soprattutto in Europa, il 60% della produzione. «La coltivazione è biologica, il vino non lo è: per il semplice fatto che, a mio parere, non può esserlo. Prendi l’assedio della peronospora, per esempio: devi difenderti con sette, otto trattamenti. Il vino è uno strano prodotto – dice con fare istrionico a Pugliosità -, persino un po’ assurdo». Sandro Candido si definisce «ignorante», in materia di vino, ma ho molto studiato (non solo economia, ndr): «Ho molto girato, dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica, dal Sudafrica al Cile, all’Argentina e alla Spagna, e da ogni posto ho imparato qualcosa che oggi metto a frutto, ho capito come facevano i produttori di quei posti e ho provato a sbagliare il meno possibile. E poi, francamente invidio i francesi. E i veneti, che hanno trasformato il prosecco in un mito, anche con l’aiuto della Regione. Quello che manca a noi, almeno con quella “profondità”».
Mentre le parole fluiscono come un torrente in un tratto privo di declivio, ecco l’Aleatico, un vino dolce da doc Salice Salentino: accompagna il fruttone, una varietà locale di pasticciotto, farcito con una spettacolare pasta di mandorle.
Il viaggio nelle terre delle aziende del Consorzio Salice Salentino continua.
Là dove c’erano i palmenti, praticamente scomparsi tra gli anni Settanta e Ottanta, oggi ci sono aziende come la Serìo. Giuseppe, rampollo di famiglia, ci accoglie in contrada Monticello, nella caligine di strade interpoderali per mostrarci la infinita teoria di spalliere. «Questo è Negroamaro, questa è Malvasia. Sono piante giovani, la prima vendemmia risale al 2017. Purtroppo – spiega nella luce abbacinante di un sole che non fa sconti – la peronospora ci toglie il 30% di potenzialità produttive». Ma quello del vignaiuolo, aggiunge Giuseppe, è «un mestiere meraviglioso». Con le temperature alte – e altissime – di giugno e luglio, la raccolta è prevista per metà settembre, quindi con largo anticipo. A due passi dalla piantagione c’è il Limitone dei Greci: da una parte c’erano i bizantini, dall’altra i goti. E c’è un delizioso tempietto che risale al terzo secolo prima di Cristo, dedicato a San Miserino.
Il vino racconta tanta storia e tante storie. Come quelle di uno zio prete che ha scritto delle lotte iconoclastiche che costrinsero i monaci basiliani a scappare dalla furia di Leone l’Isaurico. E dunque, un’etichetta della cantina fondata negli anni Trenta, che Pippi Serìo nel 1947 lancia in orbita, non può non chiamarsi che La Cona, «come i nostri vecchi chiamavano quelle immagini sacre».
«Il salto generazionale (già operato con Domenico, agronomo, ex sindaco di San Donaci, ndr) ha garantito una svolta imprenditoriale: pensiamo con la testa, operiamo continuamente in sinergia, ma non ci annulliamo in organismi giganteschi: il mercato, d’altro canto, offre opportunità a tutti». Il problema, aggiunge, è che «il contadino non vive più, mentre il produttore può farcela e ce la fa».
E mentre gustiamo un calice di “Setis”, un rosato di Negroamaro, «un vino giovane ma vecchio», nello scenario di un antico palmento che oggi è un giardino e domani, chissà, potrebbe essere un delizioso wine-bar, ci illustra uno dei suoi progetti: un vino fatto solo “in cemento”, perfetto contenitore per il Negroamaro in purezza.