Cazzemàrre, l’involtino barese preparato con il quinto quarto

In tutta la Puglia siamo ghiotti di preparazioni a base di “quinto quarto” e, nella tradizione, si è sempre usata ogni parte degli animali, nulla veniva scartato.

Una volta si usava cucinare il cervello ai bambini per la convinzione che farlo mangiare potesse servire ad aumentarne l’intelligenza, mentre le preparazioni più conosciute sono certamente gli “ghiemmerìidde”, una sorta di piccoli involtini di interiora di ovino (fegato, polmoni, rognone, cuore) avvolti nel budellino di agnello e poi cotti alla brace.

Diffusi in tutta la regione con alcune differenze nella preparazione, prendono vari nomi a seconda della zona: turcinieddhi, gnummareddhi, torcinelli, gnomerelli; insieme a salsicce, zampina, costatine di agnello rappresentano l’antica tradizione della “carne al fornello”, praticata in quelle macellerie pugliesi che abbinano alla vendita della carne cruda anche quella cotta a regola d’arte sulla brace di carboni.

Il demologo e storico barese Felice Giovine mi dice che il termine “ghiemmerìidde” deriva da “ghièmmere” che, in dialetto, significa gomitolo e, infatti, le budella di agnello vengono attorcigliate più volte intorno alle interiora.

Tipici di Locorotondo, invece, sono gli “gnemerìdde suffuchète”, involtini a base di trippa, mentre a Martina Franca, fino a pochi anni fa c’era una macelleria che si era inventata le “ciungomme”, in pratica degli gnomerelli di dimensioni piccolissime, così chiamati perché in bocca erano gommosi come un chewing gum.

Quando si preparano solo con il fegato di agnello, prendono il nome di fegatini, da non confondere con i fegatelli toscani e umbri, che sono fatti con il fegato di maiale avvolto nel suo peritoneo, comunemente chiamato rete.

Se, invece, vengono preparati con le animelle sono una vera ghiottoneria e i Baresi le chiamano “pùdece”, cioè pulci, riferendosi alle piccole dimensioni.

Ma, tecnicamente, cos’è il quinto quarto? Per quinto quarto si intende tutto ciò che è fuori dai tagli nobili dell’animale, che si divide, appunto, in quarti, due anteriori e due posteriori.

Ciò che viene scartato dai quattro quarti rappresenta il quinto quarto, quindi muso, zampette, tutte le interiora, coda, orecchie, ecc., che cucinati in vario modo rappresentano molte ricette tipiche regionali.

Basti pensare alla pajata, l’intestino tenue del vitello da latte con il quale, a Roma, ci si fanno i rigatoni, oppure al lampredotto toscano, cioè l’abomaso dei bovini, usato dai toscani per il famoso panino che viene venduto per strada.

In Sicilia si usa fare “u pani ca meusa”, cioè con la milza bollita, oppure le stigghiòle, budella di agnello alla brace; in Campania dal maiale si prepara “o père e o mùsso”, piede e muso del maiale, mentre in Calabria si fa il Morsello (morzeddhu) il tipico panino imbottito di varie frattaglie e trippa di vitello, mentre tra i piatti più tipici del Piemonte c’è la finanziera, ricchissimo piatto di frattaglie di vitello con l’aggiunta di creste e bargigli di pollo.

In Francia si usa l’intestino tenue e il mesentere di vitello per fare le anduillette, mentre in Scozia il piatto tradizionale è l’haggis, un insaccato a base di fegato, polmone e cuore di pecora, mescolato con farina d’avena e grasso di rognone, e con questo impasto viene riempito lo stomaco dell’animale.

Per non parlare della “capuzza” o “capuzzella” piatto caro ai baresi che cucinano al forno la testa dell’agnello divisa in due e gratinata con pecorino, prezzemolo e olio extravergine.

In Grecia, invece, si prepara il kokoretsi, una grande involtino di interiora ovine cotto allo spiedo, molto lungo – ne ho visti anche di un paio di metri – che viene fatto rosolare bene e servito caldo nelle taverne.

È molto gustoso e somiglia tantissimo alla preparazione tipicamente barese che viene chiamata “cazzemàrre”, il cui nome viene italianizzato in cazzomarro o semplicemente marro, e proprio di questo piatto della tradizione, caduto un po’ in disuso, voglio parlare.

In macelleria non lo trovate, se lo volete dovete ordinarlo al vostro macellaio di fiducia, che dovrà procurarsi tutti gli ingredienti.

In pratica è un grosso involtino, potremmo dire un salsiccione, fatto con le interiora di agnello insaporite con pecorino romano, prezzemolo, pepe, e molti mettono anche la mortadella, il tutto avvolto nella rete e poi chiuso dalle budella dell’agnello.

Ovviamente si può preparare anche in casa, anzi una volta si faceva così, soprattutto nelle campagne, ma certamente farselo preparare è molto più comodo e chi è schizzinoso evita così di maneggiare le frattaglie.

Si cucina al forno con le patate e, volendo, con i lampascioni, finché è bello rosolato e cotto anche all’interno, poi si taglia a fette e si serve.

Una delizia non leggerissima che a Bari fa parte del pranzo di Pasqua, ma che è ottima in qualsiasi momento dell’anno.

 

Foto Credits: Sandro Romano

 

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