Michele Minchillo, lo chef pugliese neo stellato dalla cucina d’impatto

È rimasta stazionaria la volta celeste sopra la Puglia, dopo la presentazione qualche settimana fa della guida Michelin 2022: tutte incollate al firmamento le stelle pregresse, senza declassamenti né (auspicabili e attese) promozioni. Fuori dai confini regionali, invece, le buone notizie sono due: la stella a Michele Cobuzzi del ristorante Anima dell’hotel Milano Verticale, appartenente alla galassia Bartolini, e quella inattesa a Michele Minchillo, ventinovenne chef del Vitium di Crema.

Michele è un pugliese purosangue, nato e cresciuto a Foggia, in quella che è forse la zona a minore vocazione gourmet della regione. “Come tanti, ho iniziato ad appassionarmi al mondo della cucina e all’idea di far star bene le persone a casa, quando mamma Patrizia e nonna Elvira preparavano i loro pranzi della domenica, la pasta con le braciole, i troccoli, le panzerottate. Piatti ‘terra terra’, profondamente radicati nel territorio. Mi divertivo a dare una mano come fanno i bambini nelle mansioni più semplici, per gioco. Per questo poi mi sono iscritto all’Alberghiero di Vieste, ma dico sempre che è una scuola che può anche allontanare dal settore. Invece è stata decisiva l’Alma, che mi ha messo in contatto con tanti prodotti e professionisti di rango. La mia prima esperienza è stata da Isa Mazzocchi, poi ho iniziato a girare fra Italia ed estero, sono passato brevemente da Perdomo, ho cucinato a Dubai e all’Aska, due stelle di New York dove si faceva cucina nordica, con l’orto fra i grattacieli. Tanto che qualcosina è rimasto, al Vitium puoi ancora trovare una fermentazione o una kombucha, a volte”.

In queste esperienze hai portato un po’ di Puglia con te?

Gli chef con cui ho lavorato erano perlopiù del sud e spesso si instaurava una specie di baratto. I miei, ovunque mi spostassi, spedivano pacchi di sottoli, capocollo, caciocavallo. Per farmi sentire a casa. E a me piaceva fare assaggiare quei sapori ai colleghi. Penso in particolare alla burrata eccezionale di un piccolo caseificio di Monopoli, che ha lasciato tutti a bocca aperta. Perché all’estero possono arrivare i prodotti, ma non sempre trovi le vere eccellenze.

Poi è venuto il Vitium.

È successo tutto un po’ per caso, quando avevo venticinque anni. Volevo lavorare in una piccola città, senza tornare in Puglia, che reputo una piazza difficile per il fine dining a causa del legame con la tradizione. In città mancava un’offerta del genere, ma c’era già questo ristorante, che abbiamo adattato al nostro stile. E sono tuttora l’unico stellato della provincia di Cremona, anche se non nascondo che all’inizio c’è stata qualche difficoltà, perché manca l’abitudine.

Come definiresti il tuo stile?

Mi piace pensare che sia una cucina d’impatto, dove il messaggio arriva subito agli ospiti. Nei miei piatti ci sono pochi ingredienti, lavorati in leggerezza, senza stravolgimenti. Posso aggiungere che non è una cucina territoriale, ma si compone di contaminazioni fra le mie origini e le mie esperienze.

Quanta Puglia resta?

Tanta. L’olio che uso in apertura, per esempio, arriva dagli ulivi della masseria di Monopoli, dove si è trasferito mio padre. Una coratina in purezza che ha grande successo. Accompagna il servizio del pane, dove non mancano mai i taralli. La prima cosa che riceve l’ospite quando si siede, poi, sono le pettole di farina di grano arso con qualche fettina di capocollo Santoro. A seguire piatti che spesso comprendono verdure, latticini e carni pugliesi, secondo il periodo. Prima della stella, nel pranzo di lavoro servivo anche semplicissime orecchiette alle cime di rapa, che piacevano molto. La cucina pugliese è così: dove la metti, sta bene. Ma anche a casa mia, dopo il servizio, tante volte ci scappano i taralli con la birretta.

Stai lavorando a qualche piatto?

La dispensa pugliese è così ampia e diversificata, che un cuoco ha tantissima scelta. Il background di sapori è sconfinato. Uno dei miei piatti preferiti è il pancotto, ma non è facile riprodurlo. Penso al pane raffermo bollito con le verdure e condito con un intingolo di aglio e peperoncino, qualcosa di molto saporito e salutare, a scarto zero. Ma non sono ancora riuscito a metterlo in carta, perché è facile cadere nel banale o in un’esecuzione da trattoria, più consona ad altri format ristorativi. Riso patate e cozze, per dire, è molto più facile da interpretare.

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