Il “cacaruozzo”, la parte migliore del pane di Triggiano

“I vecchi lo chiamano il culo del pizzo del pane”. Così Pierino Quassia inaugura una delle sue liriche dialettali più note, U cacaruezz, letteralmente il “cacaruozzo”, in realtà intraducibile. Spiega il poeta triggianese nei versi successivi: è come un “coppino”, un mestolo. Tolta “la mollica dalla pancia, il vuoto creato si deve riempire di cicorie scaldate e fave con la buccia. E una lacrima d’olio a crudo”. L’olio buono, però, sembra invocare. Magari il succo delle olive molite nel grande frantoio di Triggiano. E il pane … anche il pane dev’essere della cittadina alle porte di Bari.

Un prodotto straordinario, anche se non a sufficienza promosso.

La cui realizzazione, secondo il rigoroso disciplinare elaborato dal consorzio creato anni fa e che non è mai riuscito ad imboccare la retta via che porta all’ottenimento della Igt se non proprio della Dop, deve prevedere la cottura in forno a pietra (chianca) con il fuoco che brucia scorze di mandorle e residui di noccioli di albicocche, spruzzati nella caverna incandescente da una sorta di imbuto controllato da un dispositivo elettronico. Prima di infornare, i panificatori triggianesi ci danno un taglio. Quella “valle” al centro della pasta è un segno inconfondibile, indelebile, un vero marchio di qualità. Che crea due parti ben distinte. E se il pezzo è da chilo, il quarto è perfetto come cacaruozzo, il pizzo, il coppino. Il contenitore perfetto. Non solo di fave bianche e cicorielle. Ma anche delle cime di rapa stufate, farcia ancor più apprezzata dai contadini e dai muratori nella pausa che spaccava a metà la fatica della giornata nei campi o sui palazzi in costruzione.

La farina dev’essere di grano tenero. La mollica è bianca, spesso compatta, qualche volta cavernosa. La crosta scura, spessa e croccante.

C’è poi chi il pezzo del pane lo riempie, quasi fosse un contenitore di coccio – di peperoni fritti al pomodoro. Oppure, affettato, va condito con pomodorino scoppiato, un filo d’olio novello, una spruzzata di sale e di origano. Una merenda perfetta. Per qualcosa di più sostanzioso, due fette ad avvolgere mortadella e provolone piccante o caciocavallo stagionato (qualcuno ci aggiunge volentieri un pomodoro secco sgocciolante d’olio).

Oltre dieci anni fa, il Consorzio del prosciutto San Daniele scelse tre tipi di pane per ogni regione. Per la Puglia, oltre alla puccia salentina ed al pane di Orsara, venne preferito il pane di Triggiano. Che poi “eliminò” gli altri due. In barba ai più noti pani di Laterza e di Monte Sant’Angelo, per non dire di sua maestà il pane di Altamura.

Lo scorso anno il progetto MItMade in Triggiano vinse il bando regionale “Cantieri innovativi di antimafia sociale: educazione alla cittadinanza attiva e miglioramento del tessuto urbano. L’iniziativa vide protagonisti ragazzi dagli 8 ai 18 anni insieme ai panificatori triggianesi. Obiettivo, il riuso come forno sociale di un immobile confiscato alla mafia in contrada Lame.

E domenica 10 torna la Sagra del pane e dell’olio, giunta alla 18esima edizione. Il centro storico e la chiesa di Santa Maria Veterana con i suoi suggestivi ipogei sono la cornice ideale per cibo e artisti di strada, animazioni e degustazioni.

Insomma, un pezzo di pane sarà pure “conzato alla poverella”, ma resta “pieno di odori”, per dirla con il poeta Quassia. Quegli odori che rimandano alle mandorle, alla terra, alla fame atavica dell’uomo. E al suo riscatto.

Foto Credits: Vito Prigigallo

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