Raffaele Liuzzi è diventato chef per evadere dal lavoro nei campi, oggi porta in tavola la Puglia

Dodici provette con cocktail diversi e altrettanti spiedini di pesce, stile mangia e poi bevi. Oppure una tisaniera contenente trucioli di ciliegio e sopra il filtro una dadolata di sgombro, da accendere per affumicare al tavolo. Erano i primi anni zero quando Raffaele Liuzzi lasciava a bocca aperta gli ospiti della sua Locanda Liuzzi a Cattolica con i “Pesci in analisi” e altre amenità, divertissement nel divertimentificio della Riviera. Anni ruggenti in cui si è ritagliato il suo spazio nel panorama gastronomico, senza mai smettere di sparigliare. “Adrià mi aveva mostrato che l’emozione a tavola, oltre il gusto, sta nel gioco e fuori dal piatto”, si infervora. Di che farne il Lucignolo impertinente dell’avanguardia italiana, con la coppola girata sulla testa, simbolo di una pugliosità in controtendenza.

Per arrivare a Cattolica, di chilometri e di snodi ne aveva percorsi parecchi dalla sua Canosa, dove il padre Gerardo, devoto uomo di chiesa e proprietario terriero, cercava in ogni modo di tenerlo nei campi insieme ai suoi quattro fratelli. “Ma io già da bambino ero un ribelle. Per questo ho iniziato subito a lavorare, in modo da sfuggire al suo controllo. Visto che appena mi trovava inoccupato, mi trascinava in campagna. Già in seconda elementare portavo il caffè ai tavolini del bar pasticceria di mio zio Sabino e mi intascavo le mance, poi ho cominciato come garzone a consegnare le pastarelle a casa e sono passato in laboratorio, dove c’era più rispetto. A un certo punto in un paese di contadini, orecchiette e cime di rapa è planato come un alieno uno chef francese, che serviva ostriche, caviale e foie gras. È durato due mesi, il tempo di farmi fare l’apertura. Avevo undici anni e pulivo il pesce, tenevo in ordine la linea, facevo qualche stuzzico mentre frequentavo la scuola. Un giorno mi disse che questo lavoro mi avrebbe dato l’opportunità di girare il mondo, avrei avuto da mangiare, un tetto e uno stipendio. Ho capito subito che sarebbe stata la mia vita e sono corso a iscrivermi a un alberghiero convittuale, sempre per stare fuori di casa”.

“Non è che non avessi la testa a posto, solo era in un posto diverso da quello che pensava mio padre. Che prima di morire è venuto su a Cattolica per dirmi: ‘Avevi ragione, hai fatto bene’. Il primo lavoro fuori dalla Puglia è stato all’Antica Trattoria del Cacciatore a Casteldebole, poi altri giri, il militare e sono arrivato a Parigi. A quei tempi non avevo capito nulla, pensavo fossimo tutti fortissimi, invece la ragazza che frequentavo, pasticciera da Robuchon, mi fece passare due settimane nella loro cucina e rientrai in Italia per imparare dai migliori: Gino Angelini al Grand Hotel des Bains di Riccione e Gualtiero Marchesi in Bonvesin de la Riva, quando c’era Berton agli antipasti. La disciplina era forte, ma io sapevo che dovevo piegarmi e lavorare su me stesso. Alla fine Marchesi mi avrebbe assunto, ma io volevo fare di testa mia ed ero già responsabile di un albergo in Riviera, dove mi pagavano bene. Facevo il consulente mentre continuavo a imparare, anche al fianco di Vissani, per capire la sua cucina”.

Dopo Villa del Quar nel Veronese e Villa Matarazzo con un socio, arriva la decisione di mettersi in proprio, nell’intenzione di condire l’esperienza con il pepe della fantasia. “Non avevo mai smesso di studiare, leggere e tenermi informato su ciò che facevano i grandi. E quando è uscito fuori Adrià, mi ha incuriosito tantissimo. Ho capito che potevo creare la mia cucina, purché alla base ci fosse la migliore materia prima. Effetto wow”.

I ricordi della Puglia sono vividi. “Venendo da una famiglia che aveva la terra, in casa mangiavamo verdura due volte al giorno, a pranzo e a cena, sempre diversa. La carne il giovedì e la domenica, il pesce se andava bene il venerdì, quasi sempre ciambotti di pesce povero, che nel tempo si è ‘arricchito’, come le canocchie. Poi c’erano i dolci della pasticceria di mio zio, che erano molto fini e diversi dagli altri, avevano un’impronta internazionale perché lui si era formato da Motta. Non ho più mangiato un babà o una deliziosa del genere”.

“Quando ho iniziato a girare, se venivo coinvolto nella fase di ideazione o dovevo collaborare al pasto per il personale, ho sempre portato quello che sapevo, quindi la mia cucina pugliese, le verdure e il giusto modo di mantecarle. Ricordo che da Marchesi fu uno scandalo, cuocere la pasta insieme ai vegetali, ma poi anche lui ha capito. Come ingrediente, invece, il mio talismano è stata la ricotta scanta, che tuttora servo come stuzzico con il pesce. Nelle osterie pugliesi non mancava mai, con una fettina di pane alla griglia appena ti sedevi. La chiamavano ‘apristomaco’ perché con l’acidità favorisce la digestione, i grassi proteggono come il burro mentre l’amaro stimola l’appetito. Amo e vendo anche i vini pugliesi, soprattutto i rossi e i rosati, che sono la prima lacrima dell’uva”.

“Nella cucina della Locanda sono tante le ricette ispirate alle mie origini. Per esempio la millefoglie di melanzana con mousse di fichi secchi, che rappresenta la mia infanzia in Puglia, dove fuori da ogni casa un tempo si stendevano le tavolate di pomodori, fichi, melanzane e zucchine ad essiccare per l’inverno. Quindi le lamine disidratate di melanzana con la mousse senza zucchero aggiunto e lo yogurt acido a spezzare. Un ortaggio poroso, che assorbe il gusto del suo accompagnamento, riconoscibile per via dei semini piccanti che punzecchiano al momento del dessert. E poi un altro dolce, Terra mia, dove racconto la masseria di famiglia con i suoi ingredienti, la ricotta di pecora, il limone candito, la terra di olive verdi e nere, il gelato di latte di mandorle, il mosto di fichi e il guazzetto di fichi d’India. Cos’è la Puglia per me? Una terra ancora selvatica, da costruire, adorabile per questo. Mi trasmette un sentimento di libertà, quello che forse mi spinge a essere creativo”.

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