Francesco Zompì, l’avvocato con la curiosità maniacale per la ristorazione stellata

C’è chi per lavoro o per interesse personale testa le cucine degli chef stellati e non, girovaga per ristoranti e trattorie per andare alla scoperta di nuovi luoghi di culto, veri angoli di piacere, più o meno noti. Li contraddistingue l’entusiasmo tale e quale allo scopritore di talenti, l’occhio vigile e la particolare sensibilità del palato affinata con l’esperienza a tavola. Gli appassionati dell’affascinante mondo della cucina almeno una volta avranno sentito nominare, e forse l’ho ha anche invidiato, Andy Hayler. È l’uomo che è stato in tutti i tristellati del mondo pagando di tasca propria. In Puglia c’è Francesco Zompì, avvocato di professione, travolto dagli imprevisti della vita, per caso negli anni ’70 ha iniziato a viaggiare e mangiare nei ristoranti, prima di allora era per definizione l’esatto opposto di un buongustaio. La passione lo ha portato a collaborare con la Guida Espresso, Guida Osterie e ha ricoperto la carica di fiduciario Slow Food a Capo di Leuca. Francesco è stato in quasi tutti gli stellati in Italia, ne mancano pochi per completare il giro. Gli abbiamo fatto qualche domanda sullo stato di salute della ristorazione, in Puglia soprattutto, ed è venuta fuori qualche curiosità.

 Avvocato, gastronomo o buona forchetta, in quale veste si sente più a suo agio?

I tempi cambiano. Se questa domanda mi fosse stata posta 20 anni fa, non avrei esitato a rispondere “l’Avvocato”. Da qualche anno questa professione si è trasformata; il clima che si respira nelle aule giudiziarie sta subendo cataclismi peggiori di quanti ne stia procurando il buco dell’ozono. Il dover litigare per professione, alla lunga, lascia i suoi bravi strascichi. Di conseguenza, la risposta è diversa; non so se sono un “gastronomo” o una “buona forchetta”, piuttosto mi definirei un curioso (maniacale) della ristorazione.

 È stato in quasi tutti i ristoranti stellati italiani, com’è iniziata questa avventura?

Per puro caso. Fino all’età di 26/27 anni, i miei menu erano imbarazzanti; panna a non finire, accompagnata da vere e proprie nefandezze, tonno, wurstel e scatolame vario; niente verdure, niente ortaggi, niente intingoli. Mia madre era disperata. Nel ‘78, o forse nel ’79, ebbi l’occasione di fare un mezzo giro d’Italia per lavoro. Dovevo ripianare i debiti di un calzaturificio e, quindi, recarmi di persona (internet, fax e bonifici immediati sarebbero apparsi di lì a qualche decennio) presso i vari creditori sparsi fra Santa Croce sull’Arno, Vigevano e Civitanova Marche. Avevo sentito parlare, non ricordo come e da chi, di un ristorante di Imola, considerato fra i primissimi in Italia. Ero spesato (particolare determinante nella storia). Mi fermai in un Autogrill, consultai la guida telefonica (a quel tempo, esistevano i telefoni a gettoni e, in ogni Autogrill, erano a disposizione della clientela le guide telefoniche di tutte le regioni) e prenotai. Dopo un’oretta, in preda a una vera e propria crisi comportamentale (quali posate avrei dovuto usare? dove le avrei dovute lasciare? e a che cosa serviva quel piattino messo accanto al piatto principale?) varcai la soglia del San Domenico; mi accolse Gianluigi Morini e mi si aprì un mondo, dal quale non sono più venuto fuori. Dal giorno successivo, ho iniziato a mangiare fra l’incredulità di mia madre qualunque cosa fosse edibile.

 Al momento quanti ne mancano, la scelta del posto è casuale o segue un filo logico?

Ne mancano ancora tanti, un po’ perché ne nascono sempre di nuovi, un po’ perché, per varie ragioni, l’età non fa sconti, giro molto meno. Limitandoci all’Italia, e prendendo come riferimento la Michelin, posso dire di essere stato in tutti i tristellati e in buona parte dei bistellati (2/3 dei quali prima o poi mi vedranno seduto a uno dei loro tavoli). Di quelli con una stella, che sono circa 330, ne avrò visitati più o meno la metà. Non c’è un filo logico; una buona recensione, una segnalazione “accreditata”, un premio, la vicinanza a una zona vinicola, una buona raggiungibilità, tutto può contribuire a indirizzare la scelta.

Cosa ricorda del primo stellato pugliese in cui ha mangiato?

Fra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, mi pare che in Puglia (potrei anche ricordare male) ci fossero solo 3 ristoranti con una stella: Bacco a Barletta, il Fornello da Ricci a Ceglie Messapica e Il Poeta Contadino ad Alberobello. Dopo qualche anno, si aggiunse Già sotto l’arco a Carovigno (unico dei quattro a conservarla ancora). Il primo che visitai fu Bacco, nella vecchia sede di via Sipontina. All’epoca Franco Ricatti accoglieva gli ospiti in smoking (dopo l’esperienza statunitense lo ritrovai, nel nuovo Baccosteria, in sala con un foularino al collo e un gilet di cuoio), i bicchieri dell’acqua erano d’argento, le posate venivano cambiate, anche se non utilizzate a ogni portata. Ricordo buona parte di quello che mangiai: seppioline con cipolle dolci, involtino di pescatrice e melanzana, capasanta con i cardoncelli, tagliolini ai ricci e capretto glassato al Moscato di Trani; e per finire una cornucopia con crema pasticciera e frutti di bosco. Forse adesso fa sorridere ma all’epoca era semplicemente esaltante.

Il mondo del fine dining è in costante evoluzione, quali sono i principali cambiamenti che ha riscontrato in questi anni in Puglia?

Non sono granché convinto della direzione verso la quale viaggia l’alta ristorazione. Ho la nettissima sensazione che, in un numero sempre crescente di casi, la vista abbia surclassato il gusto; e, dal momento che stiamo pur sempre parlando di cose da mangiare (e non da vedere), non mi sembra un gran trovata. I giovani cuochi, magari reduci da esperienze presso chef rinomati, sembrano preoccupati principalmente di soddisfare l’estetica del piatto, anche quando questa va a discapito della bontà; penso sia capitato a tutti di mangiare piatti tiepidini, se non addirittura freddi, solo perché in cucina ci hanno impiegato un quarto d’ora a posizionare, con le pinzette da estetista, foglioline di maggiorana, petali di fiori e gocce sferificate di una qualsiasi cosa. Non mi ritengo un degustatore reazionario, ma forse ci si dovrebbe dare una regolata. Al cliente non interessa se il piatto sia bello e se il nome sia particolarmente suggestivo. Il piatto deve essere innanzitutto buono, il resto è optional. Quanto alla Puglia, tutte le novità sembrano indirizzate verso quella che qualcuno definisce la “nuova cucina italiana”, insomma verso la “cucina gourmet”. Ciò che, a mio avviso, manca è una sorta di ritorno al passato; la “grande trattoria”; un posto dove si faccia autentica ristorazione di territorio, ma in un contesto non necessariamente sciatto; qualcosa, tanto per fare qualche nome, tipo Antichi Sapori di Pietro Zito o tipo Cibus di Lillino Silibello. C’è chi ci sta provando e bene anche, vedi Botteghe Antiche a Putignano ma sono ancora pochi. Se viaggi in Piemonte o in Emilia, ad esempio, non c’è città, paese o borgo, in cui non ci sia un posto del genere; da noi, aprire una trattoria di tradizione (ma con bicchieri giusti, servizio giusto, carta dei vini giusta) sembra quasi una deminutio.

Perché nella nostra regione manca ancora la seconda stella?

A parte che, nella storia della ristorazione pugliese, abbiamo già avuto un ristorante che ha preso la seconda stella (il già citato Bacco, nella prima delle sue tante vite), è una domanda alla quale dovrebbero rispondere i curatori della Michelin. Non intendo ergermi a “giudice dei giudici”, ma, siccome me lo chiedi, ti dico che, ultimamente, l’assegnazione delle stelle in Puglia non mi trova del tutto d’accordo. Per quello che può valere il mio pensiero, qualcuno (almeno un paio) non dovrebbe averla e qualcuno (almeno un paio) dovrebbe averne due. Non posso dire di aver mai mangiato male in un bistellato (le 2 stelle sono una garanzia pressoché assoluta; in qualche monostellato, ahimè, sì), ma certo è che, in alcuni pugliesi, ho mangiato, e non una volta sola, allo stesso livello, se non addirittura meglio.

Quando si tratta di ristoranti ne ha da raccontare. In Puglia quale locale l’ha sbalordita piacevolmente ribaltando l’impressione iniziale e perché?

Francamente non ricordo esperienze del genere. Posso dire che, quando vado, per la prima volta, in un locale nel quale ripongo aspettative particolari e non mi trovo bene, cerco sempre di dare una seconda chance; se anche la riprova fallisce, non ci torno. Qualche volta, raramente, capita di ricredermi; ma mai al punto che un rospo diventi un principe; al massimo una coda di rospo.

La pandemia ha cambiato l’atteggiamento dell’ospite a tavola?

Se lo ha cambiato, non me ne sono accorto. Certo, non il mio.

Tifa per i giovani o i veterani?

Per i buoni. Mai fatte classifiche in base all’anagrafe come si fa a non amare i Santini o i Pinchiorri (tanto per fare due nomi di veterani) e come si fa a non amare Camanini o Gorini (tanto per fare due nomi di giovani). L’arte non ha età. Né dobbiamo rifugiarci nel solito luogo comune (sbagliato come la gran parte dei luoghi comuni) secondo cui i giovani portano ventate di novità. Ho mangiato cose stupefacenti dal sessantenne Scabin e menu, intriganti solo a leggerli, in realtà stanchi, di giovani virgulti.

L’emergenza sala è un problema reale o c’è sempre stato?

Il problema, non c’è dubbio, esiste ed è preoccupante, anche se credo che interessi più che altro la ristorazione di medio-basso livello; il servizio dell’alta ristorazione non mi sembra in crisi, né qualitativa, né quantitativa. Non ho la competenza per individuare le cause del fenomeno; sento parlare dell’influenza nefasta del reddito di cittadinanza, che rappresenta una vera e propria istigazione alla disoccupazione; ma non credo che sia l’unico fattore. L’aumento a dismisura, specie qui da noi e specie in estate, dei posti di ristoro (che si chiamino ristoranti, osterie, trattorie, pizzerie) comporta, inevitabilmente, un proporzionale aumento dell’offerta di lavoro, che, per forza di cose, può essere soddisfatta solo attingendo a figure non professionali.

Al ristorante stellato o no, qual è la prima cosa che osserva nel servizio e nelle portate?

Tutto. Compatibilmente con la categoria del locale. Tanto più alto è il livello del ristorante (e del conto), tanto minore deve essere il margine di errore. Se, ad esempio, lasci la bottiglia del vino fuori dal tavolo, in modo tale che il cliente non possa servirsi da sé, devi avere un servizio in grado di evitare che un bicchiere rimanga vuoto anche per un solo minuto. Recentissimamente, tanto per fare l’ultimo esempio, sono stato in un locale in cui ho pagato uno sproposito, ma il mio bicchiere del vino è rimasto a secco per tutta la durata di una portata ed è stato riempito solo quando sono riuscito ad attirare l’attenzione di un distratto cameriere. Se mi fai pagare quasi 200 euro a testa per un menu di 6 portate e una bottiglia appena decente (scelta fra le 3, dico 3, recitate a voce dal facente funzione sommelier), pretendo la perfezione.

Terminato il giro riparte dall’inizio?

Il giro, purtroppo, o per fortuna, devo deciderlo, non termina mai. Finché me la sentirò, continuerò a girovagare. Agosto l’ho dedicato al Salento. Il prossimo impegno importante già programmato sarà a La Trota di Rivodutri (ai piedi del Terminillo), in quello che, a mio parere, è il miglior ristorante di pesce d’acqua dolce di Italia; ci andrò, con il mio solito gruppo di amici, il 23 settembre. A seguire, appena mi sarà possibile, ho in calendario Marotta a Castel Campagnano (del quale mi ha parlato Antonello Magistà, e tanto basta) e Dalla Gioconda a Gabicce Monte; tre ragazzi, fra sala e cucina, con una lunga esperienza da Bottura che hanno aperto, da poco più di un anno, un ristorante ecosostenibile. Se ne sentono mirabilia.

 

 

 

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