Il progetto “Senza Sbarre” con “A Mano libera” rende i taralli un cibo al sapore del riscatto

Impastare farina e mescolarla  bene per dare vita a dei taralli, che celano in ogni sacchetto un gesto liturgico che ha il sapore del riscatto. Senza Sbarre è il progetto nato nel 2018 per opera della Diocesi di Andria e del suo condottiero, Don Riccardo Agresti, con l’obiettivo di reinserire detenuti ed ex detenuti all’interno di un percorso rieducativo e di inclusione sociale. Una masseria di proprietà della stessa Diocesi collocata in contrada San Vittore, nel territorio di Andria, custodisce una realtà che permette agli uomini di avere una seconda possibilità per dare alla propria vita una nuova forma. Con l’8 per mille e l’aiuto dei ragazzi ospiti della struttura si è potuto procedere con piccole opere di restauro, che hanno permesso alla masseria di diventare un efficiente laboratorio di produzione artigianale.  I taralli con il marchio “A mano Libera” profumano di speranza, quella che Don Riccardo offre ai suoi ragazzi, portandoli a fare i conti con se stessi e con gli altri per riuscire a sconfiggere il male, abituandoli a credere nel bene e nel lavoro. Don Riccardo si batte per rendere le misure alternative alla detenzione un modello perseguibile sia per legge che per dovere morale, una modalità di scelta che permette di scegliere una nuova via da percorrere.

A Mano Libera è una grande possibilità per chi vive ai margini e per quegli uomini vittime dei propri sbagli, come ci racconta Don Riccardo: “ Accogliere queste persone e vederle lavorare è il segno di un piccolo miracolo”.  Senza sbarre nasce sì dalla capacità della Diocesi di farsi promotrice di questo progetto, ma coinvolge Magistratura e imprenditoria per rendere reale quello che fino a poco tempo fa sembrava solo un ambizioso desiderio.  “Con me in campo per vincere questa partita c’è la Magistratura, che ha fiducia nel nostro operato e il gruppo MegaMark, che per un intero anno ci ha controllato, attraverso la presenza costante di un tutor, tutto il processo produttivo” spiega Don Riccardo.

La pandemia ha rallentato lo sviluppo di questo progetto?

La pandemia e le dovute restrizioni hanno determinato una nostra minore presenza nelle carceri e quindi una minore possibilità di reclutare e selezionare i detenuti idonei e più promettenti per fronteggiare le misure alternative al carcere. Dobbiamo compiere un’ opera di discernimento, che ci permetta di selezionare solo gli uomini che davvero hanno voglia di avere un riscatto e di vivere una seconda possibilità.

Come mai siete partiti dai taralli?

In realtà siamo partiti dalla pasta, grazie al pastificio Maffei che aveva messo a nostra disposizione diversi macchinari, poi un giorno, dall’idea di una nostra dipendente di recuperare la ricetta tradizionale dei taralli fatti dalla sua nonna è nata l’idea di produrli per dare vita al nostro progetto. E oggi eccoci qui.

Cosa prova quando vede i suoi ragazzi accettare questa seconda possibilità?

Gioisco perché questo è il nostro obiettivo, vederli portare a casa il frutto lecito del proprio lavoro, mi stupisco di come il Signore  mi abbia potuto donare quel germe, che è cresciuto in me e mi ha spinto a credere nella possibilità di perseverare con  le misure alternative al carcere. Spesso queste non vengono applicate perché la loro realizzazione richiede un enorme sforzo da parte della macchina burocratica. il condannato va incluso nella società  attraverso la realizzazione di queste micro realtà, partendo anche dalle piccole cose.

Come procede l’attività produttiva?

Paradossalmente ci manca la manodopera  nonostante l’alto numero di commesse, scarseggiano i potenziali operai della nostra struttura. Ho tra i miei ragazzi un ergastolano, che si riesce a commuovere, come padre e come nonno, che se non fosse stato inserito in questo progetto sarebbe rimasto a vivere a testa bassa, recluso dagli altri uomini.  Dobbiamo praticare la via della redenzione, del riscatto e del perdono. All’interno della masseria ci avvaliamo anche del supporto della cooperativa C.R.I.S.I, che  svolge un’attività di mediazione tra il detenuto e la sua vittima per farli congiungere attraverso il perdono.

Il mondo delle istituzioni cosa potrebbe fare a riguardo?

Lo Stato dovrebbe aiutare non solo le persone bisognose, così come ha fatto con il reddito di cittadinanza,  ma realizzare un “reddito d’esistenza” anche per i detenuti. Con un sostegno economico minimo possiamo realizzare qualcosa di concreto, che possa far capire che dall’errore può nascere del bene. Il carcere non è sufficiente c’è bisogno di una pena certa accompagnata da una rieducazione certa, in carcere questo non avviene e quindi è anticostituzionale. La mentalità è ancora repressiva e chi ha vissuto come me all’interno di territori delicati, come quello di Andria, il rischio di recidivare nell’illecito da parte di questi soggetti non rieducati è molto alto, infatti, il 67% delinque nuovamente. Un ragazzo che collabora con noi dopo aver scontato la sua pena detentiva l’abbiamo assunto.

Dove vi vedete fra dieci anni?

Lì sopra diventerà un piccolo villaggio e fidandomi del Signore, che ha chiamato me con la sua Diocesi, il progetto crescerà e si svilupperà di anno in anno. Il lavoro c’è e noi l’abbiamo intercettato e ora va salvaguardato e sviluppato ulteriormente, vedo nel nostro futuro solo bene perché chi si fida del Signore capirà che c’è amore anche nel cuore degli “ultimi”.

 

 

 

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