Crudo e cotto non sono solo due modi di processare e consumare il cibo. A queste due modalità corrispondono altrettante declinazioni del pensiero umano, tra le quali passa una storia evolutiva lunga quasi due ere geologiche.
Lo spiega Stefano Cristante, docente di Sociologia dei processi culturali e massmediologo, che in maniera avvincente ci racconta alcuni macroperiodi della nostra storia attraverso le abitudini legate alla maniera di alimentarsi. Riprende, in qualche modo, un filone di studi inaugurato negli anni del boom economico, soprattutto dalla ricerca antropologica, e ripreso in anni più recenti, in coincidenza con l’irrompere del discorso legato al cibo.
È del 2013 il testo del semiologo Gianfranco Marrone sulle strategie passionali e la significazione in Masterchef, celebre talent show culinario di origine britannica (ora su Sky) che da dieci anni a questa parte ci ha abituato a parlare nuovamente di cibo. Da allora i nuovi media e quelli tradizionali sono stati letteralmente invasi da trasmissioni e testi legati al gusto, all’alimentazione contemporanea, alla cultura del cibo, critica enologica e perfino alle buone maniere a tavola. Per questo le scienze umane hanno ripreso, dopo un discreto intervallo di tempo rispetto al pioniere Lévi-Strauss, ad occuparsi del cambiamento culturale che corre parallelo al cambiamento dei costumi rispetto al cibo.
Professore, cosa intendeva dire l’antropologo Lévi-Strauss quando parlava di “cibo buono da pensare”?
Cibarsi non è solo un atto biologico che serve per sopravvivere, è invece un atto carico di significati culturali, sociali e simbolici. Come sostiene Lévi-Strauss, il cibo deve appagare un appetito soprattutto simbolico e per questo deve essere soprattutto buono da pensare.
Se torniamo indietro nel tempo in maniera significativa, ai primi sapiens interessava poco il discorso sul cibo; erano orientati ad una semplificazione, erano vincolati al cibo in maniera strutturale, appunto per sopravvivere. Non erano carnivori ma approfittavano dei cadaveri degli animali. Il discorso esulava completamente dal gusto.
L-S ha individuato in termini antropologici la differenza crudo/cotto. È dimostrato che c’è un rapporto tra la crescita del cervello e il cibo cotto, un salto evolutivo assolutamente non smentibile. La cottura ha bisogno di un’attenzione particolare e di un tempo lungo: attorno a questo tempo si costruiscono racconti e inizia la narrazione del cibo. Anche la qualità del cibo è direttamente proporzionale all’evoluzione del pensiero. Anche la salatura, successiva, è una forma di intelligenza gastronomica.
Gli antichi greci assimilavano fluidi, ambrosia, odori. Gli dei si nutrivano in maniera dematerializzata e questo porta a diramazioni di senso ulteriori.
Se arriviamo con un grande salto alla società industriale, c’è il grande equivoco che il cibo debba essere veloce e omologato. Il tipo di scansione della giornata lavorativa che gli anglosassoni chiamano “nine to five” (9-17 ndr) porta al cibo preconfezionato e mediocre conseguente all’ industrializzazione dei processi di produzione degli anni Cinquanta. Arrivano McDonald’s e Coca Cola.
Nella società tardo moderna c’è attenzione ad una dimensione olistica, che corrisponde all’attenzione per la bellezza e la salute.
Il chilometro zero, il cibo prodotto, venduto e consumato nello stesso luogo (o in luoghi poco distanti tra loro), non si spiega solo in termini economici. Dietro c’è una parola che si chiama “cura”: una dimensione sana e sostenibile. È un fenomeno che colpisce positivamente le classi elevate che passano dai consumi vistosi ad un consumo più attento. Il trend è molto più ampio e si sta allargando presso la classe media e lavoratrice perché i media promuovono ciò che incontra l’interesse del pubblico. In questo momento cibo e salute sono principi dell’audience.
I blog culinari hanno contribuito dal basso al boom della gastronomia, dribblando il discorso ufficiale e più tecnico dei critici di settore. Quale ruolo hanno avuto e hanno i media in questa narrazione?
Media mainstream più digitale producono un riverbero continuo ma risentono della loro logica: hanno bisogno di spettacolarizzazione e di creare emozioni surrettizie. Per questo la maggior parte dei format si basano sullo schema della gara, del conflitto, della competizione con relativa vittoria finale. Da un certo punto di vista, nulla di nuovo. Cambia l’argomento ma non cambiano le modalità del discorso.
Su un piano più microscopico, invece, è avvenuta la vera “rivoluzione”: gli addetti ai lavori hanno imparato a comunicare in maniera meno leziosa e questo è positivo perché lo storytelling del cibo ha iniziato a rivolgersi anche alle persone scarsamente competenti in materia.
Qual è il cambiamento culturale più vistoso introdotto da tutto questo parlare intorno al cibo?
La quantità non è più un valore nella gastronomia. Non è nemmeno un disvalore, come proposto dalla nouvelle cuisine. C’entra la qualità.
I banchetti matrimoniali, per esempio, un tempo erano fatti per colpire gli altri ostentando l’opulenza della famiglia. Il messaggio che si voleva trasmettere, in termini antropologici, era legato al voler dimostrare la capacità del capofamiglia di mantenere il futuro nucleo familiare. Oggi non c’è più il bisogno di riscatto che c’era a metà Novecento. Nel 2021 un banchetto basato sulla quantità non ha senso. Non si vuole l’ opulenza ma la ricercatezza e gli ingredienti genuini, anche perché si conoscono le proprietà nutritive degli alimenti.
Parlare intorno al cibo ha sostituito il classico “parlare del tempo” perché l’argomento “cibo” è molto più tranquillizzante. Il cambiamento climatico ci ha abituato al disordine meteorologico, conseguenza di un folle capitalismo industriale che non riesce a rallentare la propria corsa. Intorno all’argomento “cibo” si organizzano, poi, tanti sottodiscorsi, come quello legato alle tradizioni familiari e locali.
Per quanto, oggi, per esempio, si invochi un ritorno alla terra e al territorio, è noto come la cucina sia sempre stata legata ad un desiderio di superare i limiti geografici, climatici, temporali e stagionali per importare prodotti “altri“. L’America è stata scoperta andando in cerca di spezie.
Anche nel nuovo millennio ritengo che la cucina e le materie prime di altri paesi, più o meno ibridate con le nostre, siano uno dei metodi più comodi ed efficaci per entrare in contatto con culture diverse. C’è, però, la riappropriazione della tradizione locale, dimensione che in passato è stata scioccamente considerata dall’esterofilia.
Riconoscerlo significa fondare un vero e proprio linguaggio con relative grammatica e sintassi. La cucina pugliese, con la sua capacità di bilanciare grassi e carboidrati, parla di diversi territori: le Murge, il barese, il brindisino, il tarantino, il Salento, il Gargano. Parla, soprattutto, dei contadini del Sud.