Nelle fila degli chef pugliesi alla guida di prestigiosi ristoranti d’albergo spicca Antonio Guida, una gavetta encomiabile, spesa fra Pierre Gagnaire, l’Enoteca Pinchiorri e il Don Alfonso, e una carriera a due stelle, prima al Pellicano di Porto Ercole, poi al Seta del Mandarin di Milano, dove officia dal 2015. La sua è una grande cucina neoclassica che non dimentica le origini.
Antonio Guida, lei viene considerato un ambasciatore della cucina pugliese.
Sono salentino di Depressa, frazione di Tricase. Ma il Salento è Puglia, totalmente.
Per di più è purosangue: il suo albero genealogico è un olivo secolare. Che ricordi ha della tavola cui sedeva da bambino?
I ricordi sono tanti. Se ripenso alla mia infanzia in campagna, con la mia famiglia, vedo una quindicina, perfino una ventina di commensali. Ogni settimana facevamo il pane nel forno a legna della casa di campagna ed era una grande festa. Semola e basta, non posso levarmi dalla testa quel profumo. Poi l’impasto veniva un po’ diluito per le pizze, e ancora il pollo e la lasagna. Si andava avanti a oltranza. I miei genitori insieme a mia zia partivano presto, intorno alle 6; noi seguivamo verso le 10, per dare una mano. E non rientravamo prima delle 17 o delle 18, soprattutto la domenica.
È nato allora il suo interesse per la cucina?
Sicuramente sono momenti che hanno aiutato moltissimo. Già a 8 anni facevo le pizze ed ero addetto alla cottura del pane, perché mi piaceva. Ma anche a casa mia mamma Michelina mi teneva a fianco quando faceva la pasta fresca, orecchiette, sagne incannulate o lasagne con la sfoglia fresca tirata a mano. Perché cercava sempre di cambiare e di migliorarsi, di accaparrarsi la verdura speciale. Ho avuto la fortuna di crescere in una casa dove si parlava sempre di cibo, prodotti, stagionalità, così mi sono innamorato sempre più della cucina.
Quando poi è partito per la sua formazione nei santuari dell’alta cucina, da Pierre Gagnaire all’Enoteca Pinchiorri, cosa ha infilato nella valigia dell’emigrante?
Soprattutto i sapori di pasta fresca e sagne, la mia madeleine. Quando ho iniziato a lavorare in cucina, a 17 anni, sono diventati dei ricordi, con un pizzico di nostalgia. Col tempo si sono rafforzati sempre più, ma quello che mi mancava era soprattutto la festa, il fatto di ritrovarsi e di stare tutti insieme.
Questi ricordi le hanno ispirato ricette particolari?
Spessissimo. Ricordo qualche anno fa una rielaborazione della cuddura, impasto tradizionale che si ricava dal recupero del pane rimasto attaccato alla madia, con l’aggiunta di olio, cipollotto e peperoncino. Quasi una frolla salata all’extravergine, croccante, da mangiare per merenda. Ne ho fatto il contorno di un’insalata di mare. Oppure le mie sagne ncannulate con trippa di vitello e astice.
E in casa?
Ancora oggi la domenica in casa mia ho bisogno di riunire tante persone. Siamo sempre in 8, 10, 12. Poi ogni mese prima del covid organizzavo un pranzo di beneficenza a casa mia in favore di un’associazione onlus che aiuta bimbi disabili chiamata L’Abilità. Invitavo 12 ospiti, con l’aiuto di una persona per servire. Di solito c’era un menu degustazione breve di 4 o 5 piatti, scelti in considerazione del contributo di aziende che facevano a gara per donare. Momenti faticosi ma bellissimi, in cui conoscere persone nuove. Spero di ricominciare presto.
Le è successo di far conoscere ingredienti particolari ai colleghi?
Certo, è una cosa molto comune, anche solo cucinando per il personale agli inizi. “Vi faccio vedere come si fa in Puglia”, e da lì uno scambio di idee, culture, tecniche. Ricordo che nel 1998 ero da Pierre Gagnaire, il quale si mostrava sempre curiosissimo di provare cose particolari. Io gli ho portato del grano arso di una masseria della mia terra ed è impazzito, ci ha fatto anche una crespella che è entrata in carta, se ricordo bene.
La Puglia è?
Di primo acchito risponderei “verdure”, perché è il loro sapore a caratterizzarci. Abbiamo tanti piatti che sono praticamente vegetariani, perché la carne un tempo potevano permettersela in pochi e sul pesce mancava la cultura, per quanto possa sembrare paradossale. Poi adoro la cozza pelosa, mi piace perfino più dell’ostrica, che adoro. Perché sorprende, è potente nella dolcezza, un concentrato di mare in miniatura. L’ho usata spesso, per esempio in una ricetta di fusilli, calamari e cicoria fondente.
Torna spesso in Puglia?
Ogni anno in agosto scendo dai miei a Tricase. Cucina mia madre, ma ogni tanto anche io. Soprattutto al raduno dei parenti in campagna, dove mi vogliono tutti aiutare. Mio cugino Filippo già un mese prima mi telefona pe chiedermi: “Allora che facciamo?”
Va anche al ristorante?
Certo: alla Taverna del Porto di Tricase, alla Farmacia dei Sani di Ruffano e anche dai Bros’, che mi sono piaciuti tantissimo.
E il vino?
Quando scendo in estate mi piace bere il nostro rosato. Alcuni produttori lo fanno eccellente.
LA RICETTA
Sagne ‘ncannulate con anemoni di mare, cozze, gamberi, limone nero e salsa di ravanelli
Ingredienti per 4 persone
Per l’impasto delle sagne
300 g di farina
200 g di semola
100 g di farina di segale
180 g di acqua
Impastare tutti gli ingredienti, stendere la pasta e tagliarla per ricavare delle tagliatelle sottili, quindi arrotolarle su se stesse in modo da ottenere le sagne.
Per la salsa di ravanelli
100 g di ravanelli
300 g di acqua
20 g di aceto di riso
Riunire tutti gli ingredienti, far cuocere 10 minuti e frullare il tutto.
Per la salsa agli anemoni di mare, cozze e gamberi
80 g di gamberi
400 g di cozze
100 g di anemoni di mare
4 g di limone nero
1 dl di brodo di pesce
1 scalogno
Mettere in una padella lo scalogno confit precedentemente cotto, aggiungere il brodo di pesce, gli anemoni precedentemente lavati e frullati e cuocere per qualche minuto.
Una volta cotte le sagne, saltare in padella, aggiungere i molluschi e i crostacei privati dal guscio, legare la pasta con un filo d’olio d’oliva.
Impiattamento
Distribuire la crema di ravanelli alla base del piatto, adagiare sopra le sagne e guarnire con i frutti di mare e la polvere di limone.